Tag: ricordo

Mario Vargas Llosa, il grande autore peruviano, è morto a 89 anni a Lima, «in pace, circondato dalla sua famiglia». Nato il 28 marzo 1936, era naturalizzato spagnolo.
Vinse il Nobel per la letteratura nel 2010 «per la sua cartografia delle strutture del potere e per le acute immagini della resistenza, rivolta e sconfitta dell'individuo». Ha scritto capolavori come La città e i cani, La zia Julia e lo scribacchino, La Casa Verde, Elogio della matrigna.
Per volontà della famiglia i funerali saranno celebrati in forma privata e, rispettando le sue volontà, le sue spoglie saranno cremate.
«Ho imparato a leggere a cinque anni, nella classe di frate Giustiniano all’Accademia de la Salle di Cochabamba». Così, nel 2010, iniziava il suo discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura all’Accademia di Svezia. Settanta anni dopo, riconosceva serenamente che il momento magico in cui - decifrando i segni e trasformandoli in parole - aveva abbattuto le frontiere dello spazio e del tempo, «era la cosa più importante che mi è mai accaduta».
Avvenne nel 1941: il piccolo Mario - nato in Perù - cresceva in Bolivia senza padre (gli avevano detto che era morto), con la famiglia della madre: grandi lettori, appassionati di poesia. Anni talmente felici che non proverà mai a raccontarli. La scrittura è una forma di protesta: nasce sempre dal trauma, dal conflitto, dalla rivolta.
Nel suo caso, contro il padre, che nel 1946 riapparve per riprenderlo, riportarlo in Perù e sottometterlo alla propria ferrea disciplina. Nel 1950 lo iscrisse all’Accademia Militare Leoncio Prado. La tirannia familiare duplicava quella nazionale, perché il Perù era allora sottomesso alla dittatura del generale Odría. La letteratura divenne per il ragazzo ribelle il passaporto per la libertà. Il precoce matrimonio con la zia acquisita Julia, dieci anni più grande di lui, il trasferimento in Spagna e poi a Parigi, dove scoprì l’America Latina (e lesse Borges, Paz, García Márquez, Fuentes, Rulfo, Cabrera Infante, Onetti, Cortázar, Donoso) e il viaggio in Amazzonia dove - rifiutando ogni tentazione di esotismo o idealizzazione di una presunta armonia con la natura - scoprì il Perù arcaico dei nativi, esclusi dalla modernità e in balia del dispotismo e dell’ingiustizia, fecero di lui uno scrittore.
Il suo primo amore in verità era stato il teatro (sedotto da Morte di un commesso viaggiatore di Miller al teatro Segura di Lima), e aveva esordito come giornalista e autore di racconti (I cuccioli. I capi, 1959). È stato anche critico letterario (pregevoli i suoi scritti su Flaubert e Borges e sul romanzo - fra cui La verità della menzogna e La letteratura è la mia vendetta, dialogo con Claudio Magris), saggista (articoli e interviste raccolti in Contro vento e marea, 1982-86, mentre Il richiamo della tribù, 2018, è una ricognizione fra i pensatori liberali, come Aron, Berlin e Popper, che hanno anteposto l’individuo alla tribù, cioè alla classe, al partito, alla nazione), e politico.
Da studente marxista e socialista, intellettuale engagé nella maturità, come molti della sua generazione influenzato da Sartre, salutò con favore la rivoluzione cubana, per poi rinnegarla quando essa, divenuta regime, iniziò a reprimere il dissenso. L’invasione russa della Cecoslovacchia nel 1968 sancì la disillusione, e l’inizio di un sofferto percorso di avvicinamento all’umanesimo laico di Camus e al liberalismo. Nel 1987, col Movimiento Libertad, ha guidato le proteste contro il progetto del presidente García di nazionalizzare il sistema bancario: divenuto leader del Frente Democratico, si è candidato nel 1990 alle elezioni presidenziali del Perù. Denigrato come reazionario e conservatore (mentre lui ha sempre sostenuto che nell’America Latina funestata dalle dittature, dal terrorismo, dal nazionalismo, dal misticismo, dal razzismo, essere liberali significa essere rivoluzionari), fu sconfitto al secondo turno da Fujimori, su cui si riversarono i voti della sinistra.
Nel 1992, con un colpo di stato, Fujimori abolì parlamento e democrazia, instaurando l’ennesima dittatura: ma Vargas Llosa si era già trasferito in Spagna, paese del quale è divenuto cittadino. Se ho rievocato questa esperienza (da Vargas Llosa raccontata nell’autobiografia Il pesce nell’acqua, 1993) è perché essa ha fatto di lui il protagonista di uno dei suoi romanzi, svelando l’essenza stessa della letteratura – che dai fatti e dal vissuto nasce, ma insegna a inventare la vita e a trasformarla. La riflessione sulla natura del potere, sulla debolezza e la nobiltà dell’essere umano è del resto il nucleo della sua opera, tanto da figurare nella motivazione del premio Nobel, attribuitogli appunto per «la cartografia delle strutture del potere, per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo».
Ma Vargas Llosa è stato soprattutto un romanziere, trascinato dalla «passione, il vizio, la meraviglia della scrittura». Dal primo romanzo, La città e i cani (1962), ispirato alla sua esperienza all’accademia militare di Lima, fino all’ultimo, Tempi duri (2019), non ha mai cessato di credere nel potere del romanzo. Ha riconosciuto come maestri Flaubert, Faulkner, Dickens, Balzac, Conrad, Mann, Orwell, ma sin dal fulminante esordio che lo impose in tutto il mondo (è stato tradotto in 60 lingue), ha cercato di rinnovarlo e reinventarlo, traghettandolo nel XXI secolo. Combinando lirismo e realismo, moltiplicando i punti di vista, stravolgendo i piani temporali, usando il monologo interiore e i dialoghi, la storia, la cronaca, la satira e l’erotismo, ha indagato le miserie del suo paese e dell’animo di tutti.
In Perù – il paese di «ogni sangue» secondo José Maria Arguedas – sono ambientati La casa verde (1966), Conversazione nella cattedrale (1969), Pantaleon e le visitatrici (1973), Zia Julia e lo scribacchino (1977), Avventure della ragazza cattiva (2006), L’eroe discreto (2013), Crocevia (2019) e Le dedico il mio silenzio (2023). Ma le sue storie esplorano l’America Latina tutta, dal Brasile ottocentesco de La guerra alla fine del mondo (1981), alla Santo Domingo di Trujillo in La festa del caprone (2000), al Guatemala di Tempi duri (2019), fino alla Polinesia de Il paradiso è altrove (2003), e al Congo-belga devastato dal colonialismo de Il sogno del celta (2010).
Vargas Llosa non ha mai perso la fiducia nella capacità sediziosa della narrativa di creare un mondo alternativo, senza frontiere di lingua, cultura e religione, nel quale trovare rifugio contro le avversità o la barbarie, dissipare il caos, eternare la bellezza di un istante. Un mondo senza letteratura (o con una letteratura ridotta a svago e passatempo) sarebbe un mondo senza desideri e ideali – ha detto - perché le menzogne della letteratura diventano verità attraverso di noi, e i lettori contagiati dal dubbio metteranno in discussione la realtà mediocre in cui gli tocca vivere. La finzione è un’assoluta necessità affinché la nostra civiltà continui a esistere, si rinnovi e preservi in noi il meglio di ciò che è umano. E per questa utopia visionaria, che si è tradotta in personaggi ambigui e indimenticabili, e in migliaia di pagine trascinanti, sinistre, divertenti, feroci, sempre gli saremo grati.
Pubblicato per gentile concessione di «la Repubblica». Riproduzione riservata.

Ho saputo della morte di Alice Munro e, appena tornata a casa, sono andata ai suoi libri allineati sullo scaffale. D’impulso ne ho presi due: Danza delle ombre felici e Uscirne vivi. Il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega di una scrittrice che ha messo la longevità al servizio di un percorso artistico di assoluta imperterrita grandezza.
Tradurre Alice Munro è quello che ho fatto quasi ininterrottamente per circa dodici anni; è stata la mia vita per circa dodici anni. Come per altri può essere fare ogni giorno il pane, visitare pazienti, costruire case, suonare il violoncello. Il mio mestiere per tanto tempo è stato questo: tradurre Alice Munro. A me sembra una cosa strabiliante.
Ecco l’incipit del primo racconto della prima raccolta, quella dedicata al padre, Robert Laidlaw:
«Dopo cena mio padre fa: - Scendiamo a vedere se c’è ancora il lago? - Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa dei vestiti per l’inizio della scuola».
Ed ecco l’epilogo del suo ultimo racconto, dedicato, senza bisogno di dediche, a sua madre:
«Non tornai a casa per la sua malattia e nemmeno per il funerale... Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo».
Tra l’uno e l’altro si dispiega l’immensa costellazione di storie che, con felice caparbietà, Munro non ha mai trasformato in romanzi. «Maestra del racconto breve» recita la motivazione per l’assegnazione del Nobel del 2013. E maestra anche per non aver cambiato rotta e per aver consegnato un Premio Nobel al Canada e alla forma del racconto. Il suo unico presunto tentativo di romanzo, La vita delle ragazze e delle donne, anziché cedere all’ambizione del racconto di lunga gittata, ne frantuma la compattezza in capitoli per registrare il processo di formazione della voce narrante, Del, che, da bambina di nove anni, attraverso una serie di riti iniziatici e passaggi, approda alla necessità della scrittura e promette al lettore il dono di racconti credibili e radiosi.
Alice Munro ha continuato per sessant’anni a convocare le sue storie e a ripeterle, cioè a domandare a ciascuna di esse qualcosa che ancora le sfuggiva. «Scrivo dal punto in cui mi trovo nella vita», diceva. Il miracolo è che ogni volta il racconto trascina il lettore nel luogo in cui la lettura si fa necessaria e incantevole.
Le storie di Munro per me sono ricordi, come quelli che conserviamo delle persone che abbiamo conosciuto.
Donne, soprattutto, ragazze, bambine e donne di ogni età coi loro nomi: Heather, Maddie, Almeda, Sally, Lucille, Helen, Verna, Meriel, Fiona, Pauline, Mary Louise, Annie, Marian, Frances e tante altre ancora. Di loro, conosco i vestiti capaci di sedurre o imbarazzare, certi segreti e certe vergogne, spesso l’indirizzo, che saprei trovare, se solo esistessero i posti dove abitano.
E cose, osservate nella loro vita attiva in relazione con la nostra: case bianchissime, chiese, cuffie da bagno, tailleur, lettere micidiali.
Ma anche alberi, erbe, arbusti, piante in vaso e rovi perfino, protagonisti ignari dei racconti, insieme ai mille laghi in cui si nuota o si annega. Sono naturalmente aceri, ma anche abeti azzurri, cedri, pini neri, salici, olmi, pioppi rossi, betulle, castagni e meli, e radure sconfinate di tarassaco, lappe, piantaggini, ortiche, verghe d’oro, crescione, monarda didima e melissa. Come l’erbario poetico di Seamus Heaney che si conclude con un elenco di erbe spontanee da fiore e con la dichiarazione di un’appartenenza.
«Tra erica e calendula,
tra sfagno e ranuncolo,
tra tarassaco e ginestra,
nontiscordardimé e caprifoglio,
come tra azzurro chiaro e nuvola,
tra pagliaio e cielo al tramonto,
tra quercia e tetto d’ardesia,
passai la mia esistenza. Lì fui,
io nel luogo e il luogo in me».
Infine, le stagioni e le località, il tempo e lo spazio, tutte le immaginarie cittadine dell’Ontario come Walley, Jubilee, Hanratty, Dalgleish, che Munro ha inventato traducendole dalle reali Wingham, Guelph, Clinton, Kitchener. Perché Munro è nel luogo e il luogo in lei, oltre che nella geologia della sua lingua.
Ricordo la potenza della gioia con cui nel 2013 accolsi la notizia del Nobel: una telefonata dalla casa editrice. È stato così anche questa volta e ho sentito dentro un silenzio quieto, come di neve. Ci vorrebbe lei, per descriverlo.
Susanna Basso

Tre titoli Einaudi ai primi tre posti della Classifica di Qualità 2023 de la Lettura – Corriere della Sera. Un risultato senza precedenti che vede il trionfo di Cormac McCarthy, al primo posto con Il passeggero, e al terzo con Stella Maris.
Fra i due libri dello scrittore americano scomparso quest’anno, troviamo Ian McEwan con Lezioni.
Nei top ten ci sono anche Bret Easton Ellis con Le schegge, al quinto posto, e Niccolò Ammaniti con La vita intima, al settimo.
Podio «Einaudiano» anche nelle traduzioni. Vince Maurizia Balmelli per il suo lavoro con Il passeggero; la traduttrice occupa anche il secondo posto con Stella Maris. Terza Susanna Basso con Lezioni. Quarto posto per Giuseppe Culicchia con Le schegge.
«McCarthy è un mistico, secondo me. Con questi ultimi libri, dal suo mondo insanguinato, polveroso, in cui ha rimestato per tutta la vita, riesce a distillare qualcosa di estremo e purissimo, quasi come da una specie di calderone delle streghe».
Maurizia Balmelli
-
La storia di una salvezza impossibile. Un'opera di disperata bellezza e apicale bravura.pp. 416€ 15,00
-
Lezioni
«Il romanzo piú importante e piú necessario e piú bello che sia comparso in questo (quasi) primo quarto di secolo».
Sandro Veronesipp. 576€ 16,00 -
Stella Maris
Un romanzo di diamantina intelligenza e strabiliante vis drammatica: l'ultima degna parola di un autore di genio.pp. 200€ 12,50 -
Le schegge
In una Los Angeles sensuale e violenta, fatta di feste in piscina e musica new wave, vodka e cocaina, Bret Easton Ellis racconta la sua storia piú personale, emozionante e oscura.pp. 752€ 16,00 -

Margherita Botto, insegnante di Lingua e Letteratura francese in varie università, si è dedicata alla traduzione sin dalla fine degli anni Settanta. Tra i suoi autori Fernand Braudel, Emmanuel Carrère, Alexandre Dumas, Marc Fumaroli, Jonathan Littell, Stendhal, Laurent Binet, Fred Vargas, insieme a molti altri. Per Einaudi aveva recentemente firmato la traduzione della Certosa di Parma, dopo essersi dedicata alcuni anni prima a un altro capolavoro di Stendhal, Il rosso e il nero. «Nella secolare disputa fra gli amanti di Stendhal che preferiscono Il rosso e il nero e quelli che preferiscono La Certosa di Parma (i rougistes e gli chartreux, come vengono chiamati in Francia), quasi a smentire la dedica che chiude il romanzo, “To the happy few”, questi ultimi sono senza confronto i piú numerosi», scriveva nel risvolto di copertina. E lei, da «rougiste sfegatata», come si definiva in un’intervista della primavera del 2017 per la rivista «tradurre», era riuscita a restituire in italiano anche la grandezza della Certosa, nella sua traduzione classica e moderna al tempo stesso, tanto accurata quanto briosa, in cui Fabrizio del Dongo, la duchessa Sanseverina e i numerosi personaggi prendono forma e vita in un affresco brulicante di passioni grazie alla sua straordinaria lingua.
Ed è proprio attraverso le sue parole che vorremmo ricordarla oggi, attraverso alcuni incipit dei libri più celebri a cui ha lavorato. Sono le parole che hanno dato una voce italiana a tanti autori francesi, le parole che sempre rimarranno tra le pagine delle traduzioni di Margherita Botto.
«Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece il suo ingresso a Milano alla testa di quel giovane esercito che aveva appena attraversato il ponte di Lodi, e reso noto al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore. I prodigi di coraggio e di genialità di cui in pochi mesi fu testimone l’Italia risvegliarono un popolo assopito. Ancora otto giorni prima che i francesi arrivassero i milanesi li consideravano semplicemente una manica di briganti, abituati a darsi sempre alla fuga di fronte alle truppe di Sua Maestà imperialregia. Perlomeno, era quel che ripeteva loro tre volte alla settimana un giornaletto grande come il palmo della mano, stampato su cartaccia».
Stendhal, La Certosa di Parma, 2022
«Fratelli umani, lasciate che vi racconti com’è andata. Non siamo tuoi fratelli, ribatterete voi, e non vogliamo saperlo. Ed è ben vero che si tratta di una storia cupa, ma anche edificante, un vero racconto morale, ve l’assicuro. Rischia di essere un po’ lungo, in fondo sono successe tante cose, ma se per caso non andate troppo di fretta, con un po’ di fortuna troverete il tempo. E poi vi riguarda: vedrete che vi riguarda. Non dovete credere che cerchi di convincervi di qualcosa; in fondo, come la pensate è affar vostro. Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi».
Jonathan Littell, Le Benevole, 2007
«Vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione.
Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette.
Grazie di cortesia, di buona creanza, automatici, meccanici. Quasi vuoti.
A volte omessi.
A volte troppo insistiti: grazie a te. Grazie di tutto. Grazie infinite.
Grazie mille.
Grazie professionali: grazie per la sua risposta, il suo interessamento, la sua collaborazione.
Vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza, del vostro debito».
Delphine de Vigan, Le gratitudini, 2020
«Gabčík – cosí si chiama – è un personaggio che è realmente esistito. Ha forse sentito, fuori, dietro alle imposte di un appartamento immerso nell’oscurità, solo, sdraiato su un lettuccio di ferro, ha forse ascoltato lo stridio cosí inconfondibile dei tram di Praga? Mi piace pensarlo. Conoscendo bene Praga, posso immaginare il numero del tram (ma forse è cambiato), il suo percorso, e il luogo dove, dietro alle imposte chiuse, Gabčík aspetta, sdraiato, riflette e ascolta. Siamo a Praga, all’angolo tra Vyšehradska e Trojička. Il tram numero 18 (o 22) si è fermato davanti all’Orto botanico. Soprattutto, siamo nel 1942. Nel Libro del riso e dell’oblio Kundera lascia intendere che si vergogna un po’ di dover dare un nome ai suoi personaggi, e benché quella vergogna non traspaia nei suoi romanzi, che pullulano di Tomas, di Tamina e di Tereza, la sua è l’intuizione di un’evidenza: c’è forse qualcosa di piú volgare dell’attribuire arbitrariamente, per un puerile scrupolo di realismo o, nel migliore dei casi, per semplice comodità, un nome inventato a un personaggio inventato? Secondo me, Kundera avrebbe dovuto spingersi oltre: c’è forse qualcosa di piú volgare, infatti, di un personaggio inventato?»
Laurent Binet, HHhH, 2011
«Gardon, il piantone del commissariato del XIII arrondissement, a Parigi, maniacalmente scrupoloso, era al suo posto alle sette e trenta in punto, testa china verso il ventilatore dell’ufficio per farsi asciugare i capelli, come al solito, il che gli permise di veder arrivare da lontano, a passi lentissimi, il commissario Adamsberg. Il quale, palmi all’insù e con la cautela da riservare a un vaso di cristallo, reggeva sugli avambracci un oggetto non identificato. Con quel cognome talmente appropriato alla funzione che ricopriva da avergli procurato un sacco di prese in giro finché tutti non si erano stufati, Gardon non si segnalava per il suo acume, ma adempiva il proprio compito con uno zelo quasi eccessivo. Compito che consisteva nell’individuare qualunque stranezza in avvicinamento, per quanto minima, da cui proteggere il commissariato. E in questo era bravissimo, tanto per l’occhio esercitato da anni di servizio quanto per l’inattesa velocità dei riflessi. Nel sancta sanctorum che era l’Anticrimine non entravano cani e porci, e dovevi avere un aspetto più che raccomandabile perché il cerbero del luogo – tutt’altro che impressionante – acconsentisse ad aprire il cancello di sicurezza all’ingresso. Ma nessuno avrebbe mai avuto da ridire sull’ossessione sospettosa di Gardon, che più di una volta aveva notato i rigonfiamenti a malapena visibili di armi nascoste sotto i vestiti, o aveva dubitato di maniere troppo melliflue per sembrargli naturali, e bloccato le velleità degli aggressori. In genere si era trattato di tentativi di liberare un indiziato in stato di fermo, ma a volte invece di fare la pelle a Adamsberg, né più né meno, e questi allarmi si andavano moltiplicando. Due in venticinque mesi. Con gli anni, e i successi del commissario nelle indagini più tortuose, la sua fama si era consolidata così come le minacce alla sua vita».
Dalla traduzione di Sulla pietra di Fred Vargas a cui Margherita Botto stava lavorando, inedita.

Che facesse il dirigente editoriale, il critico letterario, lo scrittore, il traduttore o l’organizzatore culturale non cambiava la sostanza delle cose: Ernesto Ferrero aveva un suo quid, una sua personalità che attraversava i ruoli rimanendo sempre ben riconoscibile, inconfondibile. Gli «ingredienti» erano la gentilezza e l’eleganza combinate però (a dispetto dei pregiudizi sui torinesi) con la franchezza e la nettezza dei giudizi e delle posizioni; la prontezza dell’intelligenza con la disponibilità e la capacità di ascolto; il garbo e l’ironia anche nelle situazioni di stress.
Nella sua attività editoriale, dal 1963 al 1989 all’Einaudi, poi alla Bollati Boringhieri, alla Garzanti e alla Mondadori, ha sempre messo a proprio agio autori, colleghi e collaboratori cercando, secondo un’idea fissa del suo mentore Giulio Bollati, la «felicità» delle persone. E questo ne ha fatto una delle figure più amate dal mondo letterario italiano. Dagli infiniti incontri di questa lunga esperienza professionale restano appassionate memorie e indimenticabili ritratti in due libri, per l’appunto, molto felici: I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli 2005) e Album di famiglia (Einaudi 2022). La sua capacità di cogliere un modo di camminare, una parlata, un tic e di proiettarlo in un carattere, e di connettere il carattere ai pensieri e agli scritti dei suoi personaggi disegnati dal vero ne fa il nostro Sainte-Beuve.
Anche il suo acume critico, esercitato su autori come Gadda, Primo Levi e Italo Calvino, risulta corroborato dalla conoscenza diretta, dalla testimonianza, dalla capacità di racchiudere in icastiche formule descrittive/interpretative il nocciolo stilistico e umano degli scrittori più amati. Esempio eccellente ne è il recentissimo Italo, che rimarrà purtroppo il suo ultimo libro.
Come scrittore in proprio prendeva spunto dalla storia ma costruiva i suoi protagonisti con lo stesso calore letterario dei personaggi di finzione: dal Napoleone di N. al grande truffatore Edgar Laplante dell’Anno dell’Indiano (nato Cervo bianco), dal Salgari di Disegnare il vento al san Francesco di Francesco e il Sultano. Tutte parabole esistenziali straordinarie in affreschi d’epoca precisi e suggestivi.
Come direttore del Salone del libro dal 1998 al 2016 rimarrà nella storia di questo evento come sapiente organizzatore, ma verrà ricordato anche per la capacità di presenziare a tutti gli incontri più importanti e di pronunciare sempre le parole più appropriate per introdurli. Sembrava possedere soprannaturali doti di ubiquità perché avresti giurato di averlo sentito parlare un attimo prima a una tavola rotonda e già stava presentando un premio Nobel in un altro padiglione. Tanti discorsi che non avevano mai il peso dell’ufficialità e della retorica. Per lui che aveva studiato i gerghi del Quattrocento e che aveva tradotto Céline, la lingua parlata, immediata, creativa era il miglior antidoto contro qualsiasi enfasi e ben rappresentava il suo animo più profondo.
A volte la morte è generosa. A noi quella di Cormac McCarthy ha lasciato il tempo delle sue ultime parole: sarebbe bastata una manciata di mesi e il capitolo finale del suo lavoro – Il passeggero e la sua storia sorella Stella Maris, che pubblicheremo il prossimo settembre – non avrebbe preso vita durante quella del suo autore. Un capitolo finale che concentra almeno un quindicennio di elaborazioni intorno alla storia tragica di Bobby e di Alicia Western, e che è insieme una summa, uno slancio e un rimpianto: cerchio, linea e punto.
La coppia Il passeggero-Stella Maris segue il perimetro della scrittura di McCarthy, fa visita ai suoi personaggi più antichi e recenti, dai Rinthy e Culla di Il buio fuori al Ragazzo – il Kid – del Meridiano di sangue al Bianco e Nero di Sunset Limited, ripesca con nuovi ami nel bacino della sua cosmogonia, e chiude il cerchio là dove tutto è cominciato, a Knoxville, in quel sottomondo di vitalistici reietti ed esilaranti svirgolati che McCarthy ci ha regalato una volta e per sempre in Suttree, a cui Il passeggero è legato in un intimo e nostalgico abbraccio.
La linea, in quest’ultimo capitolo, punta all’oltre, e in alto. Si radica nel buio delle profondità subacquee e dell’inconscio silenzioso, casa di paure e pericoli in agguato, attraversa e sgretola il fango del mondo noto, e buca la membrana di ciò che è materiale in cerca di uno sbocco etereo e forse divino. La linea di questi romanzi è una lancia puntata verso nuovi orizzonti, narrativi e perfino spirituali. Il McCarthy del Passeggero e di Stella Maris è un mistico carnivoro.
Lo slancio per sfuggire al confine include la sua stessa arte. Com’è noto, Cormac McCarthy ha trascorso molta parte degli ultimi anni nel tempio delle scienze esatte del Santa Fe Institute, unico scrittore ammesso in un cenacolo di matematici, fisici e astronomi, e dei loro campi di azione ha respirato il fascino e il mistero. Con Il passeggero porta dentro la sua scrittura la materia arcana delle discipline dure, di cui contempla l’irriducibile bellezza, «informandola – come nota la traduttrice della diade, Maurizia Balmelli, – in un movimento prosodico che ha del rituale, anzi del liturgico, e che di quella materia allarga ed eternizza il respiro». Giustapponendo questo respiro al limite insito nel linguaggio, McCarthy sembra quasi voler dare scacco al se stesso scrittore, che dentro quel limite deve lavorare. Ma quella che leggiamo, paradossalmente, meravigliosamente, è proprio la rivincita dello scrittore. Attraverso quella creazione di genio che è il personaggio del Kid, McCarthy ci dimostra che anche la scienza, nelle sue mani, diventa un miracolo di affabulazione, e solo grazie a questo riesce a suggerirci una sua superiorità.
«La lingua del Kid, – osserva ancora Maurizia Balmelli – specchio deformante, sorta d’incarnazione dell’inconscio della protagonista, è stratificata e anacronistica come solo potrebbe essere quella di un’entità che superi i confini dell’umano. E tuttavia, anche entro i confini dell’umano, i dialoghi mccarthiani conservano una portata metafisica. A un tratto siamo su una piattaforma petrolifera e si fanno iperralistici, e per venire a capo dei vuoti, delle sospensioni, devo andare fino in Congo, e affidarmi alla perizia di chi su una piattaforma ci lavora». Le piattaforme petrolifere, le corse di automobili, le immersioni subacquee, la meccanica quantistica, l’amore proibito, le armi automatiche, il gioco di parole: non c’è limite all’esattezza quasi biunivoca del lessico di McCarthy, alla competenza delle sue descrizioni, al gusto di un’estensione verbale che riflette quella dei mondi a cui attinge; ma la ricerca della giusta espressione non trabocca in sovrabbondanza. La parola perfetta è solo una, a volte meno di una: Il passeggero celebra ad ogni riga, giù fino alla contrazione della punteggiatura, la promessa contenuta nell’ellissi.
Rimane solo il punto ora. L’immagine del punto, dopo quella del cerchio e della linea, per l’ultimo capitolo dell’avventura mccarthiana è autoevidente, ed è per noi: è il punto fermo della fine delle storie, anche di quelle lunghe e intense come questa. È il rimpianto che si porta appresso. Bobby Western ci ha accompagnato fino al tramonto di un figlio inimitabile di quell’Occidente americano che profeticamente si porta nel nome. Chi o cosa abbia accolto quel figlio, non è dato sapere. «Lo so eccome – mi contraddice Cormac McCarthy dalle pagine del suo Sunset Limited –. So cosa mi aspetta e so chi mi aspetta. Non vedo l’ora di strofinare il naso contro la sua guancia ossuta. Sicuramente sarà sorpresa di vedersi trattata con tanto affetto. E mentre la abbraccio forte le sussurrerò all’orecchio secco e antico: Eccomi qui. Eccomi qui». Forse l’ultimo capitolo che ci ha consegnato contempla la minuscola possibilità di un’estrema sorpresa.

Nel suo ricordo di Martin Amis, apparso sul «New Yorker», Salman Rushdie ha citato una frase dell’amico scomparso, che sosteneva spesso di voler lasciare dietro di sé uno scaffale di libri, in modo da poter dire: “Da qui a qui, sono io”. L’immagine mallarmeana di un mondo (in questo caso una vita) che esiste per approdare a un libro risaliva, secondo Jorge Luis Borges, alla pagina dell’Odissea in cui “gli dèi tessono le disgrazie umane affinché alle future generazioni non manchi la materia del canto”. Borges, il cui “genio – diceva Amis – mi lascia senza parole” (una condizione difficile da immaginare per uno come lui che sembrava possedere sempre parole in abbondanza), non nasconde che quella omerica possa intendersi come una giustificazione estetica del male. È certo che al male in ogni sua declinazione Amis ha dedicato pagine indimenticabili per potenza di stile e ricchezza di linguaggio, guardando Medusa dritto negli occhi. Dal male assoluto del nazismo nella Zona d’interesse e La freccia del tempo, al male non meno assoluto dello stalinismo nella Casa degli incontri e in Koba il Terribile; dal male più circoscritto ma devastante di Lionel Asbo, un piccolo delinquente inglese divenuto celebrity, al male della volgarità della moderna società occidentale, non solo inglese, in Money e in molti altri suoi romanzi. Resta aperta la questione se questo mondo tragico e disgraziato trovi una qualche forma di redenzione in pagine di tanta forza e bellezza.
Oggi lo scaffale, e quindi l’autore, si completano con la traduzione italiana del suo ultimo libro, La storia da dentro, un testo che riprende il discorso iniziato con la sua autobiografia, Esperienza, ma che ne richiama anche altri meno direttamente autobiografici (anche se molto autobiografici) come La vedova incinta, il cui sottotitolo era appunto Dentro la Storia. La Storia dei grandi eventi e la storia individuale dei piccoli uomini non sono divise dallo spazio siderale che spesso immaginiamo: a unirle c’è la letteratura, che trasforma incessantemente l’una nell’altra; ci sono i libri in cui entrambe vanno inesorabilmente a finire.
Andrea Canobbio

Eugenio Scalfari è stato un testimone e un uomo di azione nel cuore del Novecento, caparbiamente fino ad oggi. Di solida cultura classica, notoriamente compagno di scuola di Italo Calvino, Scalfari ha attraversato l’ultimo secolo rendendosi noto per le sue battaglie politiche e civili, nel segno di una prospettiva liberale radicale, contemporaneamente attenta all’individuo e alla comunità.
Le sue imprese giornalistiche, dal «Mondo» all’«Espresso» degli anni ‘60, a «La Repubblica» dalla fondazione, sono state sempre un riferimento per la parte più attenta e progressiva della società italiana. Ha scelto Einaudi come editore delle sue riflessioni mature sui significati della parabola umana, sulla laicità della vita, sulla dimensione spirituale sottratta alla fede e a ogni dogmatica, sulla inevitabilità della morte. Lo lasciamo come un amico da cui abbiamo imparato molto, a cui siamo stati affezionati, con un grato ricordo.

È stata una rockstar, e non lo sapeva. Malinconico, in queste pagine, glielo aveva detto. Diego De Silva
Rumore (1974, di Ferilli - Lo Vecchio) è uno dei grandi successi di Raffaella Carrà, forse il piú ballabile della sua discografia. Racconta le fobie serali di una donna single e la sua fatica di adattarsi all’indipendenza dopo la fine di un amore.
Nella canzone, la percezione di un rumore in casa di cui la donna non sa spiegarsi la fonte diventa motivo di resa incondizionata a una paura ancestrale (di cui quella dell’intrusione di un malintenzionato è soltanto un aspetto), e insieme l’occasione per ridiscutere una scelta d’autonomia che comporta, fra le altre rinunce (se non in primis), quella alla tutela maschile.
Il tema della paura che assale e colpevolizza finisce cosí per asservire il brano ai suoi scopi narrativi, costruendo una sorta di sintomatologia musicale dell’ansia. Il pezzo è infatti caratterizzato dalla ripetizione nevrotica, tendenzialmente infinita, di un monosillabo cantato da un coro femminile che, come in un rituale ossessivo, supporta la voce solista al battere di un tempo perentorio, tachicardico, tipicamente dance, in palese avanguardia rispetto ai canoni della musica leggera dell’epoca.
Fin dalle prime battute, Rumore ingaggia una sorta di corpo a corpo con l’ascoltatore, inchiodandolo a un tempo che non ammette variazioni e obbliga a soccombere alla tirannia del ballo. È praticamente impossibile resistere alla tentazione di muoversi, non assecondare gli implacabili colpi di cassa confermati dal basso elettrico che insiste altrettanto compulsivamente su una sola nota, evocando la pulsazione della paura sofferta dalla protagonista e giocando a un raddoppio ritmico che costringe il corpo a un riflesso d’ubbidienza, quasi ci si sentisse spinti alle spalle, come se il pezzo, per cosí dire, istigasse a buttarsi nella mischia.
E sí che in uno scenario musicale egemonizzato dalla melodia, dove le canzonette abbondavano d’archi e le percussioni rimanevano rigorosamente sullo sfondo, proporre un pezzo dove il tempo faceva da padrone e gli strumenti melodici svolgevano un lavoro impiegatizio ai margini della ritmica, deve aver costituito una provocazione artistica al limite dell’affronto.
Per non dire del testo. In quale altro brano di musica leggera italiana il sentimento della paura è stato rappresentato in una versione cosí antimetaforica e organica? Nelle canzoni d’amore, la paura è sempre paura della fine dell’amore, dell’abbandono, della solitudine: mai la paura realistica, concreta, di un male in sé (e non è un caso che un altro successo della Carrà, uscito esattamente un anno dopo, s’intitoli proprio Male), magari impersonato da un rapinatore con un passamontagna che entra di notte in casa di una donna sola (spiegherò tra poco il perché di questa figura cosí precisamente descritta nell’abbigliamento).
La paura nelle canzoni d’amore è paura della perdita della persona amata come completamento affettivo del sé, non della mancanza dell’altro (da intendersi in accezione rigorosamente maschile) in funzione di guardia del corpo.
Da questo punto di vista, Rumore compie un’operazione antiromantica e controculturale: rompe il nobile pregiudizio che accompagna, nobilitandola, la paura nelle canzoni d’amore (e perciò la esorcizza), per riconsegnarla alla piú autentica dimensione dell’angoscia.
Priva d’ogni freno inibitorio, la protagonista della canzone si consegna mani e piedi al timore dell’aggressione notturna rimpiangendo la fine di una storia che le garantiva protezione e sicurezza:
Mi è sembrato di sentire un rumore
È sera
la paura
io da sola non mi sento sicura
sicura mai
mai mai mai
e ti giuro che stasera vorrei tornare indietro al tempo
E ritornare al tempo che c’eri tu
per abbracciarti e non pensarci piú su
Il rumore è dunque una categoria dell’immaginario, una manifestazione, un richiamo. È la gaffe dell’assassino, il ciak che dà l’azione alle paure piú intime e sopite, allestendo su due piedi una scena magistralmente diretta in cui la vittima prende improvvisa coscienza della parte che le è stata assegnata.
È quanto iconograficamente accade in una delle due copertine del singolo, dove Raffa indossa un passamontagna che le scopre soltanto gli occhi, come se in una sindrome di Stoccolma, un’identificazione patologica con il malintenzionato, volesse indossarne i panni e dirci: «Io sono l’aggressore di me stessa».
Malgrado l’impietosa descrizione dell’impotenza femminile, e l’implicita negazione della possibilità della donna ad aspirare all’autonomia, Rumore è solo apparentemente una canzone maschilista, perché proprio nella piena dell’incubo, quando la protagonista sembra stia per rinnegare la sua scelta d’indipendenza, riesce a trovare il coraggio di riaffermare se stessa, rivendicando il diritto a una vita da single alla faccia della sua stessa paura:
Ma ritornare, ritornare perché
quand’ho deciso che facevo da me
Indimenticabili, poi, le esecuzioni televisive del pezzo, veri e propri video ante litteram che dimostravano la spiccata inclinazione di Raffa a concepire già allora la canzone non come una semplice esecuzione vocale, ma un concept, un pacchetto di prestazioni artistiche differenti quanto necessarie a costruire un discorso complesso, recepibile contemporaneamente su piú livelli (cosí, p. es., in uno straordinario playback in bianco e nero tuttora disponibile in rete, vediamo Raffa dimenarsi al centro della pista di una discoteca – all’epoca si chiamava night – circondata da capelloni danzanti che agitano le braccia intorno alla sua figura come in un rito d’evocazione).
Uno dei molti talenti di Raffaella consiste, senza ombra di dubbio, nella sua promiscuità estetica. Nella naturalezza con cui ha saputo adottare le forme piú estreme di una modernità ancora inedita in Italia senza causare alcun danno d’immagine al suo personaggio di conduttrice televisiva per famiglie. Nella pratica di un trasformismo che non ha mai temuto la riprovazione del pubblico, ma anzi ne ha sempre ricevuto l’approvazione spontanea.
Basta dare un’occhiata alle due diverse copertine di Rumore proposte all’epoca per avere prova certa di questa straordinaria attitudine. Di volta in volta, Raffa può mostrarsi in tenuta da motociclista, con tanto di casco alla mano e un muro di pellicce di animali selvaggi alle spalle a farle da quinta, o spingersi fino a scegliere uno stile fetish (quello del rapinatore con passamontagna) che in Italia avrebbe impiegato almeno una trentina d’anni a sdoganarsi, e poi dialogare con Topo Gigio a Canzonissima con l’affabilità della piú deliziosa delle massaie.
È questa capacità di tornare alla tradizione entrando e uscendo liberamente dall’avanguardia, quest’attitudine a vivere una doppia vita facendo in modo che nessuna delle due fagociti l’altra, la vera cifra del suo talento. Come potesse permettersi qualsiasi cosa.
Piú dei suoi indubitabili meriti di ballerina, vocalist, attrice, presentatrice e donna di spettacolo a tutto tondo, è la sua innata capacità di guadagnarsi l’indennità sul campo che fa di Raffaella Carrà il personaggio pop italiano piú significativo degli anni Settanta.
Da Sono contrario alle emozioni di Diego De Silva, pp. 44-48

Il 21 maggio 2021 Giuliano Scabia ci ha lasciato. La sua figura di scrittore, poeta, uomo di teatro, inventore di performance memorabili in luoghi considerati incongrui, dai manicomi ai boschi, è giustamente considerata fra le più originali e importanti nel mondo culturale italiano degli ultimi cinquant'anni.
Autore Einaudi dal 1964, a gennaio del 2022 uscirà postumo il suo ultimo romanzo.
«Se ne è andato un maestro, Giuliano Scabia, uno dei personaggi più importanti della scena teatrale e culturale italiana; un uomo discreto e insieme fantasioso: attore, autore di teatro, scrittore, poeta, filosofo di vita, docente universitario. Era nato nel 1935 a Padova, ma da anni viveva Firenze. […] Giocando con le parole, Giuliano Scabia è stato anche un romanziere originale con la saga di Nane Oca di cui sono usciti diversi volumi pubblicati da Einaudi nel corso di oltre un decennio e altri libri narrativi».
Marco Belpoliti, «la Repubblica», link
«Il teatro italiano perde oggi uno dei suoi padri nobili, e nello stesso tempo più semplici e "naturali". E non solo il teatro, perché la sua impronta artistica segna ancora oggi un episodio tra i più significativi, e forse "rivoluzionari", della nostra storia recente. […] È stato un grande innovatore Giuliano Scabia, che sempre soave e sorridente, ha forgiato nel profondo diverse generazioni di teatranti, di cui la sua cattedra di drammaturgia, per tanti anni al Dams bolognese, è stato luogo di formazione e approfondimento».
Gianfranco Capitta, «il manifesto»

«Giuliano Scabia era il padrone assoluto di mondi paralleli che creava con una fantasia scatenata, mai paga di sé, e con uno stile delicato, uno stile che spaziava tra il lirico, l’eroicomico e il comico. Era un uomo piccolo e allegro, gentilissimo, con una nuvola bianca di capelli in testa, sorridente ma anche capace di severità e di dispetti, una specie di angelo divertito o di cavaliere errante, sembrava uscito dalle pagine di Ariosto o di Cervantes, come tanti suoi personaggi. Come un angelo se n’è volato via venerdì 21 maggio al mattino, a Firenze, che era da molti anni la sua seconda città: per comunicarsi la notizia a vicenda, gli amici hanno scritto giustamente che Giuliano se n’è volato via. In effetti già in vita volteggiava libero, lo trovavi di qua e di là nei luoghi più impensati. […] La scrittura, la poesia, il teatro, il canto erano per Giuliano un andare simultaneo in più direzioni: verso l’interno di sé, verso il mondo, oltre ogni soglia dell’ascolto e ogni orizzonte dello sguardo».
Paolo Di Stefano, «Corriere della Sera», link
«[…] Aveva gli occhi che ridevano e insieme si posavano gentili e curiosi sull’interlocutore in cerca di una parola saggia. Lui era lì, sempre pronto ad ascoltare, parlare, spiegare, entusiasmarsi come quel fanciullo che portava sempre dentro di sé. Mancherà, e molto, al nostro piccolo mondo allo sbando Giuliano Scabia, che ci ha lasciato oggi a pochi passi dai suoi 86 anni (era nato a Padova il 18 luglio 1935). Sperimentare, aprire nuove strade insieme etiche ed estetiche, mettere in moto cervelli e cuore di chi lo circondava è stata la sua missione, al di là delle definizioni che si possono dare di lui e che dicono che Giuliano Scabia è stato tutti i nomi in locandina del teatro - autore, attore, regista, animatore, docente e formatore - ma anche poeta e romanziere».
Pierfrancesco Giannangeli, «Il Foglio», link
-
-
Nane Oca rivelato
Un rompicampo a tinte gialle porta scompiglio nella pacifica comunità dei Ronchi Palù: il cavallo Saetta è trovato morto dissanguato nel campo dei Gu. Come se non bastasse, poi, il colpevole si è macchiato anche di un altro delitto: il furto del prezioso manoscritto delle...pp. 218€ 18,00 -
Canti del guardare lontano
«(...) Tu, ombra, oltre la soglia stai
cosí calma, cosí pensosa.
Oltre ogni attimo stai. Cosí
nutri la luce. Cosí
il tempo si fa
sentiero illuminato (...)».
Giuliano Scabia, Canti del guardare lontanopp. 192€ 18,00 -
-
Il lato oscuro di Nane Oca
La magistrale scrittura di Scabia ancora una volta scioglie le profonde competenze antropologiche, mitologiche, filosofiche e teologiche dell'autore in invenzione linguistica, in visione poetica, in leggerezza fiabesca.pp. 232€ 22,00