Giulio Einaudi editore

Paolo Giordano «Quando ho seguito Bern in cima agli alberi»

L’epidemia di Xylella e Divorare il cielo.

Paolo Giordano

Da quasi un decennio la Xylella fastidiosa sta uccidendo gli ulivi in Sud Italia. L'epidemia è scoppiata nella zona di Gallipoli, portata dal mare, da chissà dove, e da lì non ha fatto che allargarsi. Fin dall'inizio, è stato proposto un piano di eradicazione degli esemplari infetti, così come di tutti quelli sani nel raggio di un centinaio di metri, al fine di contenere la malattia: alberi di quattro o cinquecento anni amputati, scalzati dal suolo e bruciati in un pomeriggio come misura di emergenza. Una strage, insomma.

Alberi di quattro o cinquecento anni amputati, scalzati dal suolo e bruciati. Una strage, insomma.

Se non avete mai visto gli ulivi secolari della Puglia, statuari nelle distese di terra rossa, è probabile che non capiate di che cosa io parli, né del perché ne stia parlando. Ma se li avete visti, se vi siete avvicinati anche una sola volta alla loro corteccia tortuosa e grigia, alle fessure e ai nodi del tronco, allora sapete che non c'è bisogno di essere dei mistici o dei fanatici dell'ecologia per accorgersi che in quegli alberi vi è qualcosa di diverso. Che sembrano senzienti, e non in modo vegetale ma come sono senzienti gli animali. Sebbene io non l'abbia mai fatto, non mi stupisce che ci siano persone inclini ad abbracciare quei tronchi per riceverne forza. E tantomeno mi stupisce che, di fronte a una minaccia, non solo gli agricoltori e i proprietari terrieri, ma anche ragazzi di vent'anni, animati da un senso istintivo di ciò che è giusto, possano fare cordone intorno a quelle sculture viventi perché vengano risparmiate.

Era l'estate del 2014 quando ho sentito parlare per la prima volta del presidio di Oria. Mi ero sposato da poche settimane e in quel periodo non mi sentivo attirato dal alcun genere di battaglia. Mi sembrava un intervallo della vita dedicato legittimamente alla calma, alla contemplazione, a un po' di felicità superficiale. Ma il presidio era lì, a pochi chilometri da dove trascorrevo le vacanze, quasi un affronto non considerarlo. Così un pomeriggio, di ritorno dal mare, mi sono inoltrato nelle strade di campagna, lungo gli sterrati protetti dai muri a secco. Il presidio era isolato, c'è voluto un po'. Infine ho trovato una dozzina di ragazzi, accampati tra alcune tende e un rudere, bevevano birra, fumavano, alcuni di loro giocavano a carte. Mi sembravano annoiati eppure in allerta, come pronti ad attivarsi per un'urgenza che prima o poi sarebbe arrivata. All'inizio mi hanno trattato con sospetto, poi devono avermi valutato innocuo e hanno acconsentito a mostrarmi gli ulivi abbattuti, coricati a terra in attesa di essere bruciati, e gli altri intorno, marcati con una X di vernice rossa, in attesa della stessa sorte. Avrebbero difeso quegli alberi a ogni costo.

Avevo intenzione di scrivere un articolo su quella visita, ma alla fine non l'ho fatto. Mi ero già messo a lavorare a un romanzo e tornando verso casa – il sole basso sull'orizzonte e l'immagine insistente di quei ragazzi e degli ulivi condannati –, ho avvertito come l'incontro di quel pomeriggio avesse già modificato l'evoluzione della storia nella mia mente.

Sono passati quattro anni e nel frattempo la situazione in Puglia è precipitata. Il guazzabuglio d'informazioni contraddittorie sull'infestazione, di tesi scientifiche e pseudoscientifiche affiancate senza ritegno, di teorie complottiste, d'interessi economici, d'intimidazioni, d'inefficienza politica e di tipico lassismo italiano, hanno determinato una paralisi che ha lasciato il batterio libero di diffondersi di pianta in pianta, verso nord, come una cancrena inarrestabile. Oggi il Salento è gravemente compromesso. Guidando lungo la superstrada che collega Brindisi a Lecce il disastro è visibile a occhio nudo: alberi maestosi che l'estate prima avevano al più qualche ciuffo di foglie ingiallite sono ormai degli scheletri, gli oliveti delle distese spettrali. È un panorama che stringe la gola di commozione.

Alberi maestosi che l'estate prima avevano al più qualche ciuffo di foglie ingiallite sono ormai degli scheletri. È un panorama che stringe la gola di commozione.

In una certa misura, credo che si possano considerare i presidi corresponsabili del disastro. Senza ostruzionismo il programma di contenimento della Xylella avrebbe funzionato? Se il problema fosse stato affrontato con freddo senso di realtà, senza patetismi, senza un briciolo di cuore, lo avremmo risolto in tempo? E tuttavia, neppure con le conseguenze davanti, le risposte mi sembrano così semplici, univoche. Abbattere degli ulivi per salvare gli ulivi? Oppure, al contrario, proteggere pochi ulivi condannando così tutti gli ulivi? È quel genere di paradosso etico stritolante nel quale la vita ci getta spesso. Un paradosso che tocca le coscienze individuali in modi così diversi che, tenendo conto di tutto, non possiamo che ammutolire. Non a caso, il pasticcio della Xylella ha polarizzato violentemente l'opinione pubblica, spaccandola in due fazioni che si rifiutano anche solo di accogliere le ragioni opposte. Il pensiero nella sua interezza, troppo complicato, viene reciso di netto e ci si lascia prendere da qualcosa di meno razionale: l'indole, le impressioni, ciò che si sente dire in giro. La politica non fa che aggravare la situazione, sposando con la stessa spregiudicatezza una causa o l'altra per pura convenienza, fino a negare, com'è successo a luglio scorso, l'esistenza stessa dell'epidemia. E così, nell'irrigidirsi delle posizioni, nell'alzarsi costante dei toni, il batterio continua silenzioso a riprodursi, a divorare, a soffocare i vasi linfatici degli ulivi.

Scrivendo un romanzo si mettono il più possibile a tacere le proprie opinioni per non corrompere quelle dei personaggi. Quando ho seguito Bern e Teresa e Danco e Giuliana al presidio e poi in cima agli alberi, l'ho fatto con totale disarmo e tuttavia con la consapevolezza sottostante che difficilmente mi sarei trovato insieme a loro in una lotta come quella. Ma il fatto stesso di aver scelto la loro storia fra le infinite intorno tradisce, mi sembra, una possibilità della mia anima: quella possibilità che ho intuito ascoltando, dapprima pieno di scetticismo, i ragazzi di Oria, registrando la loro indignazione per quelle X di vernice rossa. Una possibilità di resistenza, che l'immensità della campagna piatta intorno rendeva ancora più futile, e quindi più romantica, più eroica. Oggi, ogni volta che ascolto qualche aggiornamento a proposito dell'epidemia, oppure qualche storia analoga – la protesta di Hambach, le manifestazioni contro l'aeroporto a Nantes –, quella possibilità si riattiva in me. È sotterranea eppure vigile, e non vuole sentire ragioni, non vuole più ascoltare o negoziare. Scalpita per arrampicarsi sui tronchi invece, su fino ai rami più alti e da lì, in mezzo a questa guerra ambientale persa ormai da tempo, da generazioni che hanno preceduto la nostra, il mezzo della desertificazione che avanza inarrestabile; da lì vuole gridare: «No. Almeno qui no. Questo singolo albero, no».

Paolo Giordano

Il libro
  • Paolo Giordano

    Divorare il cielo

    2019
    Le estati a Speziale per Teresa non passano mai. Giornate infinite a guardare la nonna che legge gialli e suo padre, lontano dall'ufficio e dalla moglie, che torna a essere misterioso e vitale come la Puglia in cui è nato. Poi li vede tuffarsi in...