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Teatro completo
Il libro
[…] sulla scena il personaggio che dice «je» per forza di cose non c’è piú. Beckett è scomparso dietro le quinte e la parola è tutta alle sue creature. Le quali, dunque, giungono finalmente a persuaderci per il solo fatto che le possiamo vedere in carne e ossa e constatare che non sono l’autore. E in nessun luogo meglio che davanti a una ribalta illuminata potranno offrire una «resa» dell’assurdo adeguata, lontana da ogni self-consciousness.
Oltre a questa possibilità di pieno distacco, di liberazione, offerta a uno scrittore letteralmente paralizzato (si vedano in particolare i Textes pour rien) dalla coscienza di sé e ossesionato dal bisogno di «altro», il teatro dà modo a Beckett di tradurre in termini quanto mai efficaci quella che sembra essere una delle sue astrazioni favorite: l’immobilità del tempo. Nei romanzi questa pietrificazione, tentata suggerita e oggettivata con vari accorgimenti e spesso apertamente proclamata, il lettore, pur comprendendola, non arriva mai a sentirla, se non, in generale, sotto forma di profonda noia. Mentre in teatro, dove il rapporto drammaturgo-spettatore è ben diverso da quello, di collaborazione attiva, tra romanziere e lettore, egli in primo luogo è già disposto a subirla: passivamente (è seduto, è al buio) e poi la vede coi propri occhi, installata in mezzo a uomini come lui, che portano in tasca l’orologio e il calendario.
Carlo Fruttero