Giulio Einaudi editore

Maurizio de Giovanni «Il purgatorio dell'angelo»

Il cadavere di un gesuita, un segreto che non può più essere nascosto: è tempo di confessioni per il commissario Ricciardi.

Maurizio de Giovanni

Il cadavere di un gesuita, un segreto che non può più essere nascosto: è tempo di confessioni per il commissario Ricciardi.

«La storia si svolge a maggio con lo scirocco che soffia sale e sabbia, e rende rosso il cielo. È il mese delle rose. A un certo punto de Giovanni sospende il racconto e segue il destino di un fiore. È una rosa che passa di mano in mano, un fiore che insegue la vita, sfiora anche la mano di Ricciardi; dietro ogni mano c’è una persona e c’è una storia talvolta felice, talvolta triste che lo scrittore tratteggia con brevi e rapidi accenni. Maurizio de Giovanni, qui e altrove nei romanzi e nelle serie narrative, prova con caparbietà a raccontare tante storie, a inseguire molte vite. Come fa la rosa».
Severino Colombo, «Corriere della Sera»

Con Il purgatorio dell’angelo Maurizio de Giovanni dà vita ad un altro romanzo dedicato all’amatissimo commissario Ricciardi. Questa volta il protagonista dovrà fare i conti non solo con il ritrovamento di un cadavere, ma anche con i suoi sentimenti per l’amata Enrica a cui non può continuare a nascondere la propria natura, il segreto che a lungo lo ha tenuto lontano da lei.

A Posillipo, vicino alla spiaggetta dell'acqua minerale, riverso sul tufo c'è il corpo di un uomo: indossa la tonaca, ha il viso rivolto verso il suolo, una ferita sulla testa di radi capelli bianchissimi. La vittima è un prete, un gesuita colto, un professore per i seminaristi della comunità di San Luigi, amico e confessore di famiglie influenti, dell'alta società napoletana. Il commissario Ricciardi, giunto lì con il brigadiere Maione ed una recluta, Vaccaro Felice, osserva il cadavere e manda via i presenti. Pochi istanti dopo arriva «il fatto», la voce del morto che gli sussurra poche parole, quelle che lo guideranno in una difficile indagine: «Io confesso, ti confesso, lascialo stare, lascia che viva, io ti confesso».

Per Severino Colombo, in un’appassionata recensione del romanzo sul «Corriere della Sera», ci sono due elementi che «danno la misura di quanto, in questa indagine, la sfida a cui de Giovanni invita il lettore sia raffinata e stimolante, fatta di rimandi interni tra situazioni in divenire e di dettagli coerenti tra i personaggi. Il primo aspetto è il luogo dove il religioso, la testa fracassata da una grossa pietra, viene ritrovato: a Posillipo su un piccolo promontorio che ben dispone alla pace dell’anima e che invece, in questo caso, offre riposo (eterno) a un corpo. L’altro elemento da rimarcare è la (nota) capacità di Ricciardi di vedere i morti (quelli uccisi o raggiunti da morte violenta) e di sentire le loro ultime parole, nel caso di padre Angelo: “Io confesso, ti confesso”. Frasi aperte con una doppia valenza semantica che non sfugge al commissario: poteva essere l’ammissione da parte del religioso di una colpa commessa o “poteva anche essere un riferimento all’attività principale di padre Angelo, e in tal caso sarebbe stato opportuno condurre la ricerca tra coloro che avevano l’abitudine di svelare le proprie anime nere al gesuita”».

Padre Angelo era amato, afferma incredulo il superiore della comunità dei gesuiti, un uomo straordinario, autorevole sì, ma dolce e sereno, fedele al suo compito,insomma quasi un santo. Dove andava la notte in cui è stato ucciso? È stato chiamato per qualche confessione?

Il commissario conosce la difficoltà della confessione, lui stesso sa di dover dire alla sua amata Enrica ciò che lo turba, deve metterla a parte del suo terribile segreto, quello che gli fa percepire il dolore e le parole delle vittime. Deve parlare con lei, che ha rifiutato Manfredi, un ufficiale affascinante e ricco, tedesco per di più, e nel 1933, anno XI del Fascismo. La scelta di Enrica è incomprensibile per la madre, che ora vuole conoscere quel Ricciardi, inspiegabilmente scapolo e solo: «Lacicatrice della solitudine la riconosci subito […] Il racconto della strada – perché noi raccontiamo la strada – non può prescindere dal racconto delle solitudini. Nei nostri libri la solitudine ha anche un’altra funzione, porta alla riflessione e moltiplica i talenti» (Maurizio de Giovanni a colloquio con Ilaria Tuti, «la Repubblica»).

L'indagine dunque si intreccia con le difficoltà e le inquietudini del commissario, con i suoi dubbi: «Essere testimone visionario del dolore del mondo e sopportarne quindi il peso angoscioso lo fa diventare vittima di quello che chiama “il fatto” […] Questa rappresenta comunque, la sua arma investigativa. In un’azione che contempla incontri, interrogatori, ricerche e confessioni. Le sue e quelle dei padri gesuiti, in un intreccio dei piani giudiziario e religioso, uno inquisitorio alla Ricciardi e l’altro mistico alla Sant’Agostino, che costituisce il terreno di più succoso significato su cui de Giovanni si misura, uno scavo nel profondo degli animi che punta allo svelamento del crimini e delle colpe» (Generoso Picone, «Il Mattino»).

Il libro