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Wallenstein
Un caposaldo del teatro europeo tradotto da Massimo Mila sessant'anni fa in una prosa che ancora oggi appare moderna ed efficacemente teatrale.
Il libro
Quando scrisse le tre parti del Wallenstein, fra il 1796 e il 1799, Schiller era ormai un uomo maturo. Aveva abbandonato le ingenuità e i furori ideologici delle prime tragedie, nelle quali il bene, il coraggio e la libertà stavano da una parte, e il male e la tirannide dall’altra. Nel portare sulle scene le vicende del generale dell’impero asburgico, che tante battaglie vinse durante la Guerra dei Trent’anni ma venne poi sospettato di tradimento e ucciso, Schiller non mette in campo vizi contro virtù, ma uomini a tutto tondo, un po’ buoni e un po’ cattivi, in lotta fra loro; soprattutto rappresenta le loro volontà teoriche in lotta contro l’andamento quasi meccanico delle loro azioni negli insondabili destini tracciati da quel groviglio di forze discordi che è la storia.
«Una tragedia del volere umano e della sua libertà, tragedia del rapporto tra azione e accadimento, tra i propositi dell’uomo e la forza cieca della realtà».
Dall’introduzione di Massimo Mila