Giulio Einaudi editore

Salvatore Mannuzzu 1930-2019

Il ricordo di Marcello Fois

Salvatore Mannuzzu

Caro Toti te ne sei andato. E devo confessare che quando mi hanno detto che era successo, che ti eri finalmente messo in viaggio per raggiungere le tue care donne, non sapevo se essere sollevato o triste. Per te l’esistenza è stata prodiga ma anche, testardamente, vendicativa. Come se rivolesse indietro quei doni tanto straordinari che ti erano stati dati. Tu sei, e resterai, uno dei più grandi fra tutti coloro che spesso con protervia, se non con superficialità, si definiscono scrittori. E molti di noi hanno accumulato nei tuoi confronti più crediti di quanto pensino.  Perché tu, in tempi non sospetti, hai attraversato, esercitato e agito, molte delle strade stilistiche, narrative, editoriali, che vengono attribuite ad altri. Quando hai scritto Procedura hai anticipato di anni quella tendenza tanto cara alle nuove generazioni di mescolare la grande scrittura alla narrazione di genere. Sei stato il nostro Gadda e il nostro Simenon. Ora che sei morto finalmente potranno collocarti nel posto che ti spetta che è quello dei padri e non dei figli, anche se alcuni dei figli sono morti prima. Abbiamo una tale passione per il culto dei morti che finalmente verrai inserito nella giusta casella e considerato per quanto di profondo hai elaborato. A qualcuno verrà persino il desiderio perverso di leggerti. Tu sei uno scrittore immenso, un pensatore immenso, un politico immenso, un giurista immenso. Tutte cose che ti ho sempre detto nonostante le tue proteste. Oggi che sei, fisicamente, morto queste cose le ripeto a tutti perché conoscano l’entità del patrimonio che tu rappresenti. Stasera rileggerò le tue cose: La figlia perduta, Un morso di formica, Le ceneri del Montiferro, e parlerò di te. Tu meriti quell’attenzione da cui ti sei sempre sottratto non con timidezza, ma, come ti piace ripetere, con accidia. Che è un sentimento narrativo e poetico allo stesso tempo. Questi due sistemi in te non erano tanto distanti, le tue riflessioni, le tue narrazioni, le tue pagine sono sempre intrise di questa affascinate ambiguità, come se non sapessero decidere se essere versi o prosa, aforismi o digressioni, poemetti, racconti, romanzi o saggi. Sono tutt’uno, sono tutto insieme. I tuoi personaggi sono te, ma ti contrastano perché sulla pagina quella tua accidia si addolcisce e prospetta soluzioni e mostra vie d’uscita. Tu conosci la strada del ritorno, proprio quel preciso territorio in cui si dice che passato e futuro non si trovino esattamente alle spalle e di fronte ad ognuno di noi, ma viceversa: il passato ci sta davanti e il futuro dietro, perché come tu hai sempre detto sappiamo molto bene cosa siamo stati ma non sappiamo affatto cosa saremo. Qualunque cosa tu abbia scritto racconta di questa ritorsione di senso, di questa ansa nello scorrere del tempo. La tua scrittura è la più fulgida, la più necessaria, la più adatta che si possa immaginare, a tal punto che a leggere ogni tua frase è impossibile considerare un’alternativa. Si ha l’impressione che ogni parola sia stata vagliata oltre ogni sopportazione. Tu hai quell’ostinazione del liutaio, hai l’orecchio perfetto, il senso della frase e del silenzio. Non hai scritto solo parole, ma anche assenza di parole. Tu sai descrivere ogni possibilità, ma soprattutto ogni impossibilità. Entri nella sostanza del dolore senza pretendere di dargli un senso, a tal punto che quel dolore non appare mai gratuito, ma necessario. Tu guardi gli uomini come paesaggi: pianeggianti o montuosi e li fai agire nel tuo mondo di principii. In contrasto col becero para realismo, nuovismo, dei nostri tempi grami. E sai che la verità è una chimera talmente presuntuosa da riuscire a rovinare i piani di qualunque scrittore o intellettuale che non sia abbastanza attrezzato. Tu hai letto, e leggi, con voracità e anche con la curiosità che solo il lettore genetico ha. Sei un lettore che conosce il potere della lettura e se ne lascia rapire nonostante tu abbia la capacità, e lo scetticismo, di svelare tutti i suoi inganni. Ti ho ascoltato ogni volta che mi hai messo in guardia dal tendere alla soluzione facile, a tratti, in questo senso, temo di averti deluso. Ma sempre si torna io e te nel sentiero della stima, in quel preciso sentire che riunisce gli spiriti affini per tensione seppure diversi per formazione e per generazione. C’è l’affetto Toti. Quello non passa. Buon viaggio, riposa.

Marcello Fois

Adieu (1963-2005) - di Salvatore Mannuzzu

Non c’è nulla da dire
Se il cielo sta per finire
Se il mare si cancella
E ogni altra cosa bella
Adieu, mes amours…
Addio miei amori
Perduti splendori
Tramontati destini
Non ci sono più mattini
Non ci sono più sere
Addio estati autunni primavere
È passata la festa
Si smonta ogni storia
Tutto ciò che resta
È una vuota memoria
Uno spento sentire
Non c’è nulla da dire

Nota: Adieu, mes amours è una chanson per quattro viole di Josquin
Desprez (1440-1521?)