Giulio Einaudi editore

A. S. Byatt 1936-2023

di Anna Nadotti

© Basso Cannarsa

Non poteva che andarsene d’autunno, A. S. Byatt, quando i colori delle foglie si moltiplicano e i boschi sono più incantevoli e incantati che mai. Mi mancherà molto, mi mancheranno le sue osservazioni sulla scrittura e il vetro, mi mancherà il rumore delle sue sinapsi, che mi pareva di udire ogni volta che avevo occasione di conversare con lei, «Non sono un’accademica cui è capitato di scrivere un romanzo, – disse in un’intervista del 2009. – Sono una romanziera cui capita di essere molto in gamba accademicamente». Da ciò lo scricchiolio sinaptico. Che sempre mi è sembrato colmo d’ironia oltre che d’intelligenza e cultura assimilata fino a diventare pelle, occhi, corpo.

Corpo che lei ha prestato ininterrottamente ai suoi personaggi, a Christabel LaMotte, ma anche a Randolph Ash, a Frederica Potter, ma anche agli uomini di cui più o meno opportunamente lei s’innamora, a Marcus Potter, che ama un altro uomo con matematica delicatezza, ai bambini e le bambine del Libro, alla narratologa Gillian, «un essere di second’ordine», che immaginando un genio uscito per lei dalla bottiglia racconta la quint’essenza del desiderio.

Quando insieme a Fausto Galuzzi traducevamo i suoi libri (migliaia di pagine in ogni senso indimenticabili), riflettevamo spesso sul privilegio di dar voce ad A. S. Byatt nella nostra lingua, che lei comprendeva bene e amava. Ne amava il suono, le etimologie, la creatività delle metafore nel parlato. E noi amavamo quel suo instancabile cercare e immaginare, quel suo complesso e documentato ragionare che non dava scampo, ora raggrumandosi in pagine terribilmente dolorose o robustamente filosofiche, ora sciogliendosi in pagine fiabesche, o di pura poesia.

Aveva un talento tutto suo nell’ascoltare e nel guardare, A. S. Byatt, e un miracoloso talento per le domande, forse perché conosceva i labirinti delle risposte.

Se n’è andata, ma i suoi libri restano. Sarei più triste se non avessi questa certezza, e poiché sono tradotti in 38 lingue, tante almeno quanti sono i colori delle foglie in questa stagione, posso immaginare una torre di babele su cui arrampicarsi con fiducia, la sua stessa fiducia nella lingua, nella letteratura e nella poesia.

«Non credo in Dio, – diceva A. S. Byatt, – ma credo in Wallace Stevens», e anche diceva: «Sono un’europea. E la mia casa è un luogo in Inghilterra, ma è la mia casa proprio perché è piena di libri in tante lingue, su scaffali che sono la mia casa».

Anna Nadotti