Giulio Einaudi editore
Marco Balzano

Nei romanzi di Marco Balzano la Storia è sempre un punto di partenza, mai di arrivo. Al centro ci sono uomini e donne che la attraversano con convinzione o paura, ferocia o umanità. Macchiandosi dei crimini peggiori, subendola o a uscendone incolumi e senza rimpianti.

In questo nuovo lavoro, l’autore racconta la storia di Mattia. Nasce a Trieste nel 1900, la sua infanzia irrequieta, forse, è già un presagio: un fratello che parte per l’America, un amico che presto lo abbandona. A Trieste tutti lo conoscono come «Bambino», è stato la camicia nera più spietata della città.

Nonostante il soprannome che gli hanno affibbiato per il suo viso da fanciullo, Mattia ostenta una ferocia da boia. Ma prima ancora dell’ideologia, prima della violenza e della brutalità antislava, il motivo per cui indossa la camicia nera e batte palmo a palmo le terre contese è la speranza di ritrovare quella madre senza nome né volto. La ricerca di una donna che non ha mai conosciuto diventa il senso di tutto. Nella frontiera d’Italia più dilaniata, la vita di Bambino scivola su un piano inclinato: ogni giorno una nuova spedizione, un nuovo assalto, una nuova rapina.

È una storia veloce quanto un proiettile che attraversa guerre, confini, tradimenti. Come in Resto qui, Marco Balzano torna al grande romanzo storico e civile. E lo fa con il suo personaggio più duro, impossibile da dimenticare.

Da anni avevo in mente di scrivere una storia sul confine orientale, perché nessun territorio come Trieste ha visto avvicendarsi con brutale violenza, e senza soluzione di continuità, fascismo, nazismo e – sebbene per poche settimane – regime comunista Marco Balzano

«Lo chiamano Bambino ma dietro il suo viso delicato con quell’aria da attore del cinema, si nasconde un’anima violenta che lo trasformerà in un fascista spietato. È a lui, al trauma del rancore, all'abbandono che toglie l’aria e il destino, che Marco Balzano dedica il suo potente romanzo Bambino, in cui i torti e le ragioni si mischiano, con straordinaria complessità. Senza fare sconti alla carne e al sangue della storia. Un racconto malinconico e crudele, capace di svelare le tensioni di un’epoca, come solo la grande letteratura sa fare».
Michela Ponzani, «Corriere della Sera»

«Marco Balzano si è immerso nel cuore di tenebra del nostro passato prossimo – tra foibe e rastrellamenti nazisti […] Ma la sua virtù consiste nel mostrarci – in fondo all’abiezione del protagonista – uno straziante desiderio di purezza. Dentro la più insensata violenza il “Bambino” pensa alla madre sparita, alla matrigna, alla prostituta cui regala un bracciale… Ecco, quel desiderio di purezza, di una zona inviolabile del cuore umano che il male e la Storia non possono raggiungere (“l'odore buono di bucato”) è forse l’unica cosa che potrebbe salvarci».
Filippo La Porta, «la Repubblica»

«Un romanzo tanto rapido quanto potente. Un romanzo velocissimo eppure difficile da digerire perché contiene senza sconti la durezza e l’asprezza della Storia quando brucia la pelle e arriva fin dentro alla carne […] Bambino è una discesa fredda agli inferi che pure non dimentica mai l’umano e nella sua violenza la sua fragilità».
Giacomo Giossi, «Il Foglio»

«Bambino è un lungo viaggio nell’“ombra” come lo definirebbe uno junghiano. Ovvero l’esplorazione accanita degli strati più oscuri del negativo che si annida nell’animo umano, condotta lungo l’arco di un intero quarto di secolo, dai primi anni '20 al 1946, in una città esemplare come Trieste, dove tutte le passioni di quel convulso pezzo di secolo si esasperavano per la presenza di un confine che non divideva solo la geografia ma le stesse anime di chi l'abitava».
Marco Revelli, «La Stampa»

«Marco Balzano nel nuovo sorprendente romanzo, Bambino, racconta la formazione di una giovane camicia nera. C’entra la politica ma c’entra anche una “questione privata”, dolorosa, una rabbia personale che trova la sua divisa».
Paolo Di Paolo, «L’Espresso»

«Il libro di Marco Balzano, Bambino, è una doppia sfida. Raccontare le foibe, tabù di tanta sinistra filo-titina, e contestualizzarle, reazione di terrore all’orrore che l’ha preceduto».
Luca Mastrantonio, «7 – Corriere della Sera»

«Un gran bel romanzo, Bambino. Marco Balzano si conferma tra nostri scrittori più consapevoli dell'ultimo decennio».
Renato Minore, «Il Messaggero»

«Un romanzo intenso, diretto, a tratti molto duro, condotto in uno stile incalzante da vero maestro della narrazione, quale Balzano ha da tempo provato di essere».
Roberto Carnero, «Avvenire»

Nicoletta Verna

Dopo il successo dell’esordio Il valore affettivo, apprezzato da critica e pubblico, torna nelle librerie Nicoletta Verna con I giorni di Vetro.

L’autrice racconta la storia di Redenta, nata a Castrocaro il giorno del delitto Matteotti. In paese si mormora che Redenta abbia la scarogna e che non arriverà nemmeno alla festa di San Rocco. Invece per la festa lei è ancora viva, mentre Matteotti viene ritrovato morto. È così che comincia davvero il fascismo.

Redenta è ingenua, ma il suo sguardo sbilenco vede ciò che gli altri ignorano. È vulnerabile, ma resiste alla ferocia del suo tempo. È un personaggio letterario magnifico. La sua voce continuerà a risuonare a lungo, dopo che avrete chiuso l'ultima pagina.

I giorni di Vetro è un romanzo storico. L’autrice ha detto: «Ho scelto di raccontare il passato per parlare della violenza del presente. Il tema principale del romanzo è la violenza come primordiale e inevitabile forma di interazione fra gli esseri umani. Questa violenza nel distruggere determina il progresso: l’evoluzione è sopraffazione, dunque violenza. […] Qualunque invenzione presente nel romanzo è sottoposta al rigido vincolo della verità storica frutto di una corposa ricerca».

Il romanzo sta ricevendo un’accoglienza straordinaria:

«È già il caso letterario dell’anno. Leggendolo rimarrete colpiti dalla straordinaria forza della lingua. Un romanzo straordinario».
Massimo Gramellini a «In altre parole» su La7, link

«È una sorpresa. Una scrittura piena di forza, personalità, capace di attingere dal passato come se ne avesse esperienza diretta».
Nicola Lagioia, link

«Questo libro è vivo: fatto di Elsa Morante e di Renata Viganò. Il romanzo italiano torna a resistere».
Roberto Saviano

«I giorni di Vetro si dimostra capace di tessere un rapporto ideale tra i destini minuti delle persone e la Storia con tanto di maiuscola, cioè quella grondante di vita, morte, amor patrio, stragi, assembramenti, sangue, folla, congiure […] Questo romanzo ti arrovella e non ti lascia in pace. Ha un fuoco ottocentesco e un carico emotivo estremo, e il suo confronto con l'estetica e la follia del fascismo è un dato oggi attualissimo. Farà parlare di sé».
Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»

«Verna ha una voce potentissima, diversa da tutte, ha come un magnete interno attorno al quale tutto il racconto gravita, una tranquillità e una sicurezza, una calma rovente. Un tizzone, la letteratura quando torna».
Concita De Gregorio, «la Repubblica», link

«I giorni di Vetro di Nicoletta Verna è un romanzo epico, ambientato a Castrocaro nell’arco di tempo dall’omicidio Matteotti, 1925, alla Liberazione, con protagonista Redenta, “nata con la scalogna”, zoppa per la poliomielite, “la scema del paese”, eppure capace, lei così fragile, di resistere alla ferocia del suo tempo e alla bestialità del marito».
Daniela Monti, «7 – Corriere della Sera»

«I giorni di Vetro di Nicoletta Verna è uno dei libri più neri e severi che io abbia mai letto, ma con una luce interna (la letteratura?) che sorregge il racconto dalla prima all’ultima riga, e gli impedisce di soccombere alla durezza dei fatti. Un grande libro».
Michele Serra, «Il Post»

«Questo romanzo riesce nell’impresa quasi impossibile di raccontare la Resistenza sfuggendo alla retorica. Per farlo, Verna segue le tracce di Fenoglio: narra gli esseri umani con le loro piccole passioni, i loro amori, le loro insicurezze, e sono queste ultime più che il coraggio a fungere da leva per combattere».
Irene Graziosi, Lucylink

Chiara Valerio

Il protagonista di Così per sempre di Chiara Valerio è il conte Dracula. Oggi si fa chiamare Giacomo Koch, si è trasferito a Roma e lavora come anatomopatologo all’ospedale Fatebenefratelli. Anche Mina Harker, la donna a causa della quale stava per essere ucciso, è un vampiro, ora si chiama Mina Monroy e abita a Venezia. Poi c’è Zibetto, il loro gatto, che può arrampicarsi per dieci piani e porta alle zampe anteriori due vistosi anelli d’oro, per l’esattezza due fedi nuziali.

Attraversando la grande stagione delle scienze, Giacomo ha capito molte cose. La prima è che tutto ciò che scorre è nutrimento, non solo il sangue, per quanto il sangue umano rappresenti ancora il suo cibo preferito. Ha capito che non si può vincere la nostalgia per i prodigiosi limiti dei viventi, e che grazie alla forza di gravità ogni uomo e ogni donna contengono l’universo.
Mina, invece, vuole solo vendicarsi di Dracula, distruggendo la sua unica vera grande passione: gli esseri umani. Ha vissuto gli ultimi sessant’anni insieme a una donna che il Conte ha ucciso – come, in effetti, ha ucciso tutti gli amori della sua vita. Decide, nella Venezia dove tutto scorre, di aprire un salone di bellezza in cui il tempo non scorra più. Dal salone di Mina chiunque entri uscirà uguale a se stesso. Per sempre…


«Nel romanzo il desiderio di restituire la realtà è visibile anche nella ricerca miniaturista delle geografie e dei particolari storici […] Mi piace che abbia un gatto, una creatura tipicamente fantasy, perché è un animale da soglia, continuamente tra il dentro e il fuori. L'unico modo per addomesticare un gatto è lasciare la porta aperta. Questo libro qui somiglia a un gatto perché fa la stessa cosa: reale e irreale hanno come soglia la letteratura che consente loro di stare lì entrambi» (Michela Murgia, «L’Espresso»).

«Diciamo subito che Così per sempre è un libro che somiglia ai suoi protagonisti: antico e moderno insieme, nonché candidato alla longevità, visto il modo in cui riesce a coniugare letterario e popolare, classico e innovazione, scienza e magia […] Dentro, c'è il gusto per le storie d'avventura di un’adolescente che freme, l'intreccio fra lettere e scienze pure che caratterizza la scrittrice adulta, la sua prosa fiume — frasi lunghissime, che però atterrano sempre in piedi, come Zibetto — e, da qualche parte, la spavalderia di un’esordiente. È la sua carriera, il vero vampiro di questo romanzo: distillate in un unico testo, ci sono tutte le anime di una delle autrici più ardite e poliedriche del nostro panorama culturale. Così da sempre» (Nicola H. Cosentino, «la Lettura – Corriere della Sera»).

«Dracula – al secolo Giacomo Koch – danza tra l’Italia di oggi e i tempi passati con la leggera disinvoltura, l’aplomb, che ci si attende da qualcuno per cui il tempo e lo spazio non significano molto […] Alla fine della lettura ci si è così affezionati a questo Dracula contemporaneo, quasi vegetariano, amante della scienza, delle piante e della psicoanalisi e che invece di giacere in un loculo riposa insieme alle radici delle piante, che siamo pronti a perdonargli tutto. Anche di essere immortale» (Stefano Mancuso, «la Repubblica»).

Così per sempre «oltre a essere il più sfacciato e riuscito tentativo di tornare al romanzo tradizionale di tutto il postmodernismo italiano, è anche un attacco frontale, gentile e spietato, alle tradizioni che informano l'Italia e la sua cultura, anche romanzesca. È un romanzo queer, l'ho detto, ma non perché racconti una vicenda di gente queer [...] Sfuma i confini tra le cose, superando le distinzioni cartesiane tra bestie e persone, organico e inorganico, eternità e immortalità. Ci rivela che non è macabro, in fondo, sentirci meno estranei a noi stessi quando ci riteniamo morti» (Alessandro Giammei, «Domani»).

Perché confrontarsi con un grande classico come il conte Dracula? «Perché ero ossessionata da lui da quando ero bambina. E perché questo è il libro che volevo scrivere da sempre, ma sapevo che prima ce ne dovevano essere altri, per allenarmi. Inoltre, perché grazie a Dracula posso indagare sul rapporto tra specie e natura» (Chiara Valerio intervistata da Loredana Lipperini, «il venerdì - la Repubblica»).

Paolo Cognetti

La felicità del lupo è il nuovo romanzo di Paolo Cognetti dopo Le otto montagne, il bestseller internazionale vincitore del Premio Strega nel 2017.

Un libro intimo, delicato, che parla di amore, di montagna e della ricerca della felicità. Un libro che, usando le parole dello scrittore durante l’incontro al Circolo dei Lettori di Torino, «mette insieme i ricordi, le esperienze, le persone incontrate. Per il resto, è tutta vita di questi ultimi anni in montagna».

È la storia di Fausto, che si è rifugiato in montagna perché voleva scomparire, e di Silvia, che sta cercando qualcosa di sé per poi ripartire verso chissà dove. Lui ha quarant'anni, lei ventisette: provano a toccarsi, una notte, mentre Fontana Fredda si prepara per l'inverno.

Intorno a loro ci sono Babette – «che esiste davvero. Lei ha un ristorante dove ho lavorato come cuoco una decina d'anni fa […] Lei è una vera artista del rifugio: ha quel talento raro di accogliere e di ascoltare, di farti sentire in un posto caldo mentre fuori, magari, ci sono venti gradi sotto zero» (Paolo Cognetti, «tuttolibri – La Stampa») – e il suo ristorante, Santorso che sa tutto della valle, delle distese di nevi e d'erba che allargano il respiro, e un rifugio a più di tremila metri dove Silvia decide di trascorrere l’estate lavorando.

«Per Fausto tornare in questi luoghi è un ritorno di rinascita, rinvenire il proprio corpo con il suo sesso, il passo e il respiro. Forse il luogo della sua felicità, se felicità è trovare il proprio paesaggio […] Nel romanzo di Cognetti tutti cercano di lambire, forse costruire, magari solo immaginare, senz'ombra alcuna di titanismo, una forma della propria felicità. Persino il lupo, che attraversa le pagine facendoci sentire il suo odore, e noi sentiamo il suo, senza mai farsi vedere» (Vittorio Lingiardi, «la Repubblica»).

Paolo Cognetti incontra alcuni influencer nel suo rifugio a Estoul

Paolo Cognetti, con il suo sguardo luminoso e la sua voce limpida, è riuscito a costruire «un romanzo che è insieme un'ode alla natura e un manuale sulle seconde possibilità nella vita» (Alberto Riva, «il venerdì - la Repubblica»).

Nelle pagine de La felicità del lupo «si respirano il freddo, il tempo che passa lento, l'alternarsi delle stagioni, il profumo del pino cembro, l'odore del fuoco, il sapore della grappa, le solitudini degli uomini […] È un romanzo vivissimo, forse parla dell'uomo che Paolo Cognetti è stato e che siamo tutti mentre cerchiamo il nostro posto nel mondo dopo una perdita o una delusione, o quando dimentichiamo che la vita è fatta di poche cose essenziali, quando perdiamo il contatto col presente» (Daria Bignardi, «Vanity Fair»).

Marcello Fois

Con L’invenzione degli italiani Marcello Fois propone un’appassionante rilettura del classico, e spesso vituperato, Cuore di Edmondo De Amicis. Per lo scrittore, che da bambino parlava il sardo e si sentiva un po' come il ragazzino calabrese che entra, quasi da straniero, nella classe torinese, la lettura di questo «diario» è stata l'occasione per immergersi nella lingua italiana.

Lo stesso Fois, in una bella conversazione con Abraham Yehoshua, su «la Lettura – Corriere della Sera», ammette che «Cuore è stato il primo tramite linguistico nazionale con cui ho avuto a che fare sul serio perché per me l'idioma ufficiale è cominciato con le scuole elementari, quando sono passato dalla lingua intima, domestica, locale - il sardo - all'italiano. Non sempre le cose sono state lineari e dentro il libro Cuore erano espressi alcuni dei problemi che io avrei incontrato».

Cuore ha un valore normativo e linguistico, progetta il carattere del nostro popolo eludendo il negativo e spostando l'attenzione sul «buono». La sua scuola è l'opposto del mondo reale ed è, secondo Fois, un vangelo laico per il mondo di oggi, un vangelo senza preti e crocifissi, una vera scuola con intento formativo. «Non sempre, scrivendo, si riesce a fare della propria avventura umana, qualsiasi essa sia, a qualsiasi livello del tempo si collochi, una storia generale, addirittura collettiva, ma Marcello Fois ci riesce, leggero e puntuale, critico e comprensivo, allegro di quella allegria che sempre l'aver capito porta con sé» (Chiara Valerio, «L’Espresso»).

De Amicis aveva in mente una scuola che modificasse, che forgiasse, la realtà, ma ci siamo trovati davanti a una società che ha modificato, e forgiato, la scuola L’invenzione degli italiani

Queste pagine ci ricordano che la fondamentale importanza del racconto pedagogico deamicisiano è stata proprio quella di formulare una grammatica essenziale, attraverso cui poterci rappresentare e raccontare come popolo unito perché solidale. Una grammatica fondata su istruzione, empatia e amorevolezza, che in tempi di odio è quanto mai importante cercare nuovamente di imparare

«Se vogliamo capire da dove veniamo, nel bene e nel male, dobbiamo continuare a fare i conti con Edmondo dei Languori» (Ernesto Ferrero, «tuttolibri – La Stampa»).

Maaza Mengiste

Il re ombra di Maaza Mengiste, uscito il 30 marzo nei Supercoralli, è il romanzo vincitore del Premio Gregor Von Rezzori 2021. L’autrice «ha scelto di scavare nella storia della guerra etiope, e nel farlo ha dissotterrato una miniera di fatti non ancora conosciuti, storie e persone straordinarie –  ha spiegato la giuria del premio composta da Beatrice Monti della Corte, Andrea Landolfi e Paola Del Zoppo – […] La storia ufficiale dice che la guerra fu combattuta dagli uomini. Mengiste ci svela che le donne, in battaglia, svolsero un ruolo altrettanto importante. Ed è soltanto una delle rivelazioni del Re Ombra, una saga complessa, avvincente e commovente, oltre che oggi necessaria».

Un riconoscimento importante che si aggiunge alla calorosa accoglienza della critica. Di seguito alcuni estratti:

«Le pagine sulla violenza perpetrata dalle truppe di Mussolini sono memorabili, narrate da un'onnisciente terza persona attraverso il filtro di Hirut, la protagonista del romanzo che è anche la memoria storica di quei tragici eventi. E Hirut è anche il simbolo di una lotta per i diritti delle donne soggiogate a un sistema patriarcale, prima ancora di essere umiliate dagli invasori».
Guido Caserza, «Il Mattino»

«Un romanzo intenso, vivo e appassionato, da leggere per mille motivi. Mille e uno, se come italiani si desidera osservare con uno sguardo altro una parte della propria storia non ancora sufficientemente conosciuta».
Francesco Filippi, «il venerdì – la Repubblica»

«Un romanzo forte, originale e appassionante di una scrittrice nata in Etiopia, che evoca la tragedia dell'invasione fascista e la resistenza eroica di un popolo […] È un romanzo importante per noi italiani: duro, rispettoso e attendibile; e non compiacente verso i limiti della cultura maschile d'ogni paese».
Goffredo Fofi, «Internazionale»

La premiazione

«Il re ombra, affresco epico e corale dipinto magistralmente da Maaza Mengiste, restituisce nomi e volti ai protagonisti dimenticati della guerra d'Etiopia, le donne guerriere che combatterono contro i "talian" cancellate dalla memoria storica, i ragazzini e le famiglie gasati con l'iprite [...] Un romanzo dalla parte degli oppressi, gli etiopi, a fronte di oppressori e invasori, noi italiani "brava gente", portati dal fascismo a conquistare l'Etiopia ad ogni costo per costruire l'impero e vendicare l'umiliante sconfitta di 40 anni prima ad Adua, la Caporetto africana».
Paolo Lambruschi, «Avvenire»

«Allora, io sono maschio, bianco e italiano. E nonostante abbia sempre fatto ogni sforzo per attenermi a quanto ci sia di più bello in questa definizione, non posso fare a meno di confrontarmi con la metà oscura che nasconde. Devo continuare a ricordarla, raccontarla e combatterla, devo farci i conti, comunque, se voglio che non ci sia più. Mi piacerebbe parlarne ancora. E anche questa è una delle tante cose importanti di cui ringrazio il bellissimo libro di Maaza Mengiste».
Carlo Lucarelli, «la Lettura – Corriere della Sera»

«Sono i caduti della Guerra d'Etiopia, che la scrittrice Maaza Mengiste fa rivivere in Il re ombra, romanzo finalista al Booker Prize che avrebbe indubbiamente meritato di vincere, magistralmente tradotto da Anna Nadotti. Narratrice di raro talento, racconta la storia delle donne che, come la sua bisnonna, combatterono insieme agli uomini l'aggressione fascista, “e che tutt'oggi non sono che rghe incerte in documenti sbiaditi”».
Lara Ricci, «Domenica – Il Sole 24 Ore»

Giorgio Agamben

Dopo A che punto siamo? (Quodlibet, 2020), pamphlet sulla pandemia che ha fatto molto discutere, torna nelle librerie Giorgio Agamben con La follia di Hölderlin. Attraverso una cronaca puntigliosa e appassionata degli anni della follia e un commento di testi che sono stati spesso considerati illeggibili, questo libro cerca di descrivere e rendere per la prima volta comprensibile una vita, che Hölderlin stesso ha definito abituale e «abitante».

Se nella prima metà della sua esistenza il poeta vive nel mondo e partecipa nella misura delle sue forze alle vicende del suo tempo, nella seconda parte Hölderlin è del tutto fuori del mondo, come se, malgrado le visite saltuarie che riceve, un muro lo separasse da ogni relazione con gli eventi esterni.

«Agamben ripercorre quel periodo oscuro dell’esistenza del poeta in una “cronaca”, che non ha dunque né l'ambizione esplicativa della storia né il limite analitico della biografia. Il cronista non distingue tra le azioni del protagonista e il suo racconto; non inventa nulla, ma non ha neppure bisogno di verificare l'autenticità delle sue fonti. Nel racconto, anzi, nella cronaca, la sua voce si coniuga con quella da cui gli è capitato di udire la vicenda narrata» (Donatella Di Cesare, «tuttolibri – La Stampa»).

Hölderlin verrà internato nella clinica psichiatrica di Tubinga: la diagnosi resterà un enigma ma gli verranno somministrati farmaci potenti, forse nocivi, non gli saranno risparmiate violenze, dalla camicia di forza a una nuova maschera facciale…

«Agamben si sofferma sulla maschera. E non è l'unico riferimento alla cronaca del periodo pandemico. Al termine dell'epilogo scrive: “Da quasi un anno vivo ogni giorno con Hòlderlin, negli ultimi mesi in una situazione di isolamento in cui non avrei mai creduto di dovermi trovare. Congedandomi ora da lui, la sua follia mi sembra del tutto innocente rispetto a quella in cui un'intera società è precipitata senza accorgersene”. Le domande allora si moltiplicano. Anzitutto: che cosa vuol dire follia? Che è folle? E poi ancora: che cosa vuol dire abitare?» (Donatella Di Cesare, «tuttolibri – La Stampa»).

Il nuovo libro di Agamben può essere valutato «come un felice approccio creativo e filosofico a una vita intesa "come figura", ovvero a un'esistenza che si pone come "punto di fuga" in cui convergono una molteplicità di fatti ed episodi, e anche le inquietudini del nostro presente. "La lezione di Hölderlin è che quale che sia lo scopo per cui siamo stati creati, non siamo stati creati per il successo, che la sorte che ci è stata assegnata è fallire in ogni arte e studio e innanzitutto nella casta arte di vivere. E, tuttavia, proprio questo fallimento se riusciamo a afferrarlo è il meglio che possiamo fare"» (Luigi Reitani, «Domenica - Il Sole 24 Ore»).

La follia di Hölderlin è già in via di traduzione in portoghese (Brasile, Ayiné), in inglese (Seagull), e spagnolo (Hidalgo).