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È stata una rockstar, e non lo sapeva. Malinconico, in queste pagine, glielo aveva detto. Diego De Silva
Rumore (1974, di Ferilli - Lo Vecchio) è uno dei grandi successi di Raffaella Carrà, forse il piú ballabile della sua discografia. Racconta le fobie serali di una donna single e la sua fatica di adattarsi all’indipendenza dopo la fine di un amore.
Nella canzone, la percezione di un rumore in casa di cui la donna non sa spiegarsi la fonte diventa motivo di resa incondizionata a una paura ancestrale (di cui quella dell’intrusione di un malintenzionato è soltanto un aspetto), e insieme l’occasione per ridiscutere una scelta d’autonomia che comporta, fra le altre rinunce (se non in primis), quella alla tutela maschile.
Il tema della paura che assale e colpevolizza finisce cosí per asservire il brano ai suoi scopi narrativi, costruendo una sorta di sintomatologia musicale dell’ansia. Il pezzo è infatti caratterizzato dalla ripetizione nevrotica, tendenzialmente infinita, di un monosillabo cantato da un coro femminile che, come in un rituale ossessivo, supporta la voce solista al battere di un tempo perentorio, tachicardico, tipicamente dance, in palese avanguardia rispetto ai canoni della musica leggera dell’epoca.
Fin dalle prime battute, Rumore ingaggia una sorta di corpo a corpo con l’ascoltatore, inchiodandolo a un tempo che non ammette variazioni e obbliga a soccombere alla tirannia del ballo. È praticamente impossibile resistere alla tentazione di muoversi, non assecondare gli implacabili colpi di cassa confermati dal basso elettrico che insiste altrettanto compulsivamente su una sola nota, evocando la pulsazione della paura sofferta dalla protagonista e giocando a un raddoppio ritmico che costringe il corpo a un riflesso d’ubbidienza, quasi ci si sentisse spinti alle spalle, come se il pezzo, per cosí dire, istigasse a buttarsi nella mischia.
E sí che in uno scenario musicale egemonizzato dalla melodia, dove le canzonette abbondavano d’archi e le percussioni rimanevano rigorosamente sullo sfondo, proporre un pezzo dove il tempo faceva da padrone e gli strumenti melodici svolgevano un lavoro impiegatizio ai margini della ritmica, deve aver costituito una provocazione artistica al limite dell’affronto.
Per non dire del testo. In quale altro brano di musica leggera italiana il sentimento della paura è stato rappresentato in una versione cosí antimetaforica e organica? Nelle canzoni d’amore, la paura è sempre paura della fine dell’amore, dell’abbandono, della solitudine: mai la paura realistica, concreta, di un male in sé (e non è un caso che un altro successo della Carrà, uscito esattamente un anno dopo, s’intitoli proprio Male), magari impersonato da un rapinatore con un passamontagna che entra di notte in casa di una donna sola (spiegherò tra poco il perché di questa figura cosí precisamente descritta nell’abbigliamento).
La paura nelle canzoni d’amore è paura della perdita della persona amata come completamento affettivo del sé, non della mancanza dell’altro (da intendersi in accezione rigorosamente maschile) in funzione di guardia del corpo.
Da questo punto di vista, Rumore compie un’operazione antiromantica e controculturale: rompe il nobile pregiudizio che accompagna, nobilitandola, la paura nelle canzoni d’amore (e perciò la esorcizza), per riconsegnarla alla piú autentica dimensione dell’angoscia.
Priva d’ogni freno inibitorio, la protagonista della canzone si consegna mani e piedi al timore dell’aggressione notturna rimpiangendo la fine di una storia che le garantiva protezione e sicurezza:
Mi è sembrato di sentire un rumore
È sera
la paura
io da sola non mi sento sicura
sicura mai
mai mai mai
e ti giuro che stasera vorrei tornare indietro al tempo
E ritornare al tempo che c’eri tu
per abbracciarti e non pensarci piú su
Il rumore è dunque una categoria dell’immaginario, una manifestazione, un richiamo. È la gaffe dell’assassino, il ciak che dà l’azione alle paure piú intime e sopite, allestendo su due piedi una scena magistralmente diretta in cui la vittima prende improvvisa coscienza della parte che le è stata assegnata.
È quanto iconograficamente accade in una delle due copertine del singolo, dove Raffa indossa un passamontagna che le scopre soltanto gli occhi, come se in una sindrome di Stoccolma, un’identificazione patologica con il malintenzionato, volesse indossarne i panni e dirci: «Io sono l’aggressore di me stessa».
Malgrado l’impietosa descrizione dell’impotenza femminile, e l’implicita negazione della possibilità della donna ad aspirare all’autonomia, Rumore è solo apparentemente una canzone maschilista, perché proprio nella piena dell’incubo, quando la protagonista sembra stia per rinnegare la sua scelta d’indipendenza, riesce a trovare il coraggio di riaffermare se stessa, rivendicando il diritto a una vita da single alla faccia della sua stessa paura:
Ma ritornare, ritornare perché
quand’ho deciso che facevo da me
Indimenticabili, poi, le esecuzioni televisive del pezzo, veri e propri video ante litteram che dimostravano la spiccata inclinazione di Raffa a concepire già allora la canzone non come una semplice esecuzione vocale, ma un concept, un pacchetto di prestazioni artistiche differenti quanto necessarie a costruire un discorso complesso, recepibile contemporaneamente su piú livelli (cosí, p. es., in uno straordinario playback in bianco e nero tuttora disponibile in rete, vediamo Raffa dimenarsi al centro della pista di una discoteca – all’epoca si chiamava night – circondata da capelloni danzanti che agitano le braccia intorno alla sua figura come in un rito d’evocazione).
Uno dei molti talenti di Raffaella consiste, senza ombra di dubbio, nella sua promiscuità estetica. Nella naturalezza con cui ha saputo adottare le forme piú estreme di una modernità ancora inedita in Italia senza causare alcun danno d’immagine al suo personaggio di conduttrice televisiva per famiglie. Nella pratica di un trasformismo che non ha mai temuto la riprovazione del pubblico, ma anzi ne ha sempre ricevuto l’approvazione spontanea.
Basta dare un’occhiata alle due diverse copertine di Rumore proposte all’epoca per avere prova certa di questa straordinaria attitudine. Di volta in volta, Raffa può mostrarsi in tenuta da motociclista, con tanto di casco alla mano e un muro di pellicce di animali selvaggi alle spalle a farle da quinta, o spingersi fino a scegliere uno stile fetish (quello del rapinatore con passamontagna) che in Italia avrebbe impiegato almeno una trentina d’anni a sdoganarsi, e poi dialogare con Topo Gigio a Canzonissima con l’affabilità della piú deliziosa delle massaie.
È questa capacità di tornare alla tradizione entrando e uscendo liberamente dall’avanguardia, quest’attitudine a vivere una doppia vita facendo in modo che nessuna delle due fagociti l’altra, la vera cifra del suo talento. Come potesse permettersi qualsiasi cosa.
Piú dei suoi indubitabili meriti di ballerina, vocalist, attrice, presentatrice e donna di spettacolo a tutto tondo, è la sua innata capacità di guadagnarsi l’indennità sul campo che fa di Raffaella Carrà il personaggio pop italiano piú significativo degli anni Settanta.
Da Sono contrario alle emozioni di Diego De Silva, pp. 44-48