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Francesca Mannocchi, giornalista abituata a essere nei luoghi di guerra, deve all'improvviso affrontare il tradimento del suo corpo: una mattina, svegliandosi a Palermo dove si era recata per un'inchiesta, si accorge che non reagisce più agli stimoli. È il primo segnale della sclerosi multipla, una malattia definita disabilitante, recidiva e remittente. Non si sa quando arriveranno le ricadute e quanto dureranno le tregue. Tutto è potenziale.
«È in un certo senso un reportage di guerra, di una guerra che ha per territorio il corpo e la storia dell'autrice, messi in discussione, auscultati, riletti. Due sono i principali movimenti narrativi che ne conseguono: da un lato il percorso riluttante, ma necessario, per addomesticare l'universo della medicalizzazione, a partire dal linguaggio stesso con cui si esprime, mai fedele al sentire di chi è ammalato; dall'altro la ricerca del senso che sottopone a uno scandaglio spietato il passato e il presente dell'autrice» (Alessandra Sarchi, «la Lettura – Corriere della Sera»).
In questo libro l’autrice racconta se stessa ma anche la fragilità dell'essere umano abbandonato dal suo corpo, dalle sue abitudini, dalle sue certezze. Descrive come è il suo essere madre, figlia, compagna attraverso lo schermo della malattia senza perdere il suo amore verso la vita: «È un libro che resta e batte nella testa, questo, come un tamburo. […] Scansare l'ipocrisia. Scegliere le parole acuminate, non avere paura di dire cosa sia la paura — di essere madre, di essere figlia, di non essere amata, di morire. Di non essere vista nel tempo che è dato senza mai perdere, però, l'amore e il rispetto per la bellezza. Per la poesia, per il mare, per un bambino che ti guarda anche quando non vuoi. Per un mazzo di tulipani bianchi quando è perfetto, sul punto di sfiorire» (Concita De Gregorio, «la Repubblica»).
Libro bellissimo, potente, in cui la scoperta della fragilità è un viaggio verso la vera forza. Jovanotti
Bianco è il colore del danno è nato da un articolo che Mannocchi scrisse per L'Espresso; per la prima volta parlò pubblicamente del suo male, pensando che riflettere in prima persona sul valore dell'accesso alla cura, i costi, gli ospedali potesse magari essere utile a chi viveva la stessa situazione: «Tutte cose con cui anche io all'improvviso mi sono trovata a fare i conti. E non sei mai preparato. Ma poi i pensieri si sono moltiplicati, ho capito che questa malattia aveva completamente scomposto la mia vita per come me la ricordavo. Cambiava tutto. Sia nella percezione che hai del tempo, che non ti appartiene più, non è più una cosa su cui puoi contare. Sia nel modo in cui tu ti pensi nel mondo e in cui ti relazioni con gli altri. La cosa più difficile da accettare – riflette – è che si tratta di una patologia imprevedibile: mi sono trovata di fronte a nuovi sentimenti, come la paura di non poter correre mai più con mio figlio di quattro anni, di non sapere cosa ne sarà del mio corpo tra una settimana, di non poter fare più il lavoro che amo» (Francesca Mannocchi intervistata da Emanuela Griglié, «La Stampa»).
Mannocchi guarda il mondo attraverso la lente della malattia per rivelare, con una voce letteraria nuda, luminosa, incandescente, tutto ciò che è inconfessabile. E lo fa senza cadere «mai nella retorica trionfale del combattimento, anzi restituisce la storia complessa di una fragilità in trasformazione, presa per mano riesce addirittura a curvare lo sguardo deformante, a scostare l'angoscia di proiettarsi impossibilitata all'improvviso ad assistere alla crescita del proprio bambino, con il terrore di non poter più leggere, vedere, fare l'amore, parlare, camminare, nuotare.» (Alessandra Pigliaru, «il manifesto»).