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Ho saputo della morte di Alice Munro e, appena tornata a casa, sono andata ai suoi libri allineati sullo scaffale. D’impulso ne ho presi due: Danza delle ombre felici e Uscirne vivi. Il primo e l’ultimo, l’alfa e l’omega di una scrittrice che ha messo la longevità al servizio di un percorso artistico di assoluta imperterrita grandezza.
Tradurre Alice Munro è quello che ho fatto quasi ininterrottamente per circa dodici anni; è stata la mia vita per circa dodici anni. Come per altri può essere fare ogni giorno il pane, visitare pazienti, costruire case, suonare il violoncello. Il mio mestiere per tanto tempo è stato questo: tradurre Alice Munro. A me sembra una cosa strabiliante.
Ecco l’incipit del primo racconto della prima raccolta, quella dedicata al padre, Robert Laidlaw:
«Dopo cena mio padre fa: - Scendiamo a vedere se c’è ancora il lago? - Lasciamo mia madre a cucire sotto la lampada in sala da pranzo; mi fa dei vestiti per l’inizio della scuola».
Ed ecco l’epilogo del suo ultimo racconto, dedicato, senza bisogno di dediche, a sua madre:
«Non tornai a casa per la sua malattia e nemmeno per il funerale... Di certe cose diciamo che non si possono perdonare, o che non ce le perdoneremo mai. E invece poi lo facciamo, lo facciamo di continuo».
Tra l’uno e l’altro si dispiega l’immensa costellazione di storie che, con felice caparbietà, Munro non ha mai trasformato in romanzi. «Maestra del racconto breve» recita la motivazione per l’assegnazione del Nobel del 2013. E maestra anche per non aver cambiato rotta e per aver consegnato un Premio Nobel al Canada e alla forma del racconto. Il suo unico presunto tentativo di romanzo, La vita delle ragazze e delle donne, anziché cedere all’ambizione del racconto di lunga gittata, ne frantuma la compattezza in capitoli per registrare il processo di formazione della voce narrante, Del, che, da bambina di nove anni, attraverso una serie di riti iniziatici e passaggi, approda alla necessità della scrittura e promette al lettore il dono di racconti credibili e radiosi.
Alice Munro ha continuato per sessant’anni a convocare le sue storie e a ripeterle, cioè a domandare a ciascuna di esse qualcosa che ancora le sfuggiva. «Scrivo dal punto in cui mi trovo nella vita», diceva. Il miracolo è che ogni volta il racconto trascina il lettore nel luogo in cui la lettura si fa necessaria e incantevole.
Le storie di Munro per me sono ricordi, come quelli che conserviamo delle persone che abbiamo conosciuto.
Donne, soprattutto, ragazze, bambine e donne di ogni età coi loro nomi: Heather, Maddie, Almeda, Sally, Lucille, Helen, Verna, Meriel, Fiona, Pauline, Mary Louise, Annie, Marian, Frances e tante altre ancora. Di loro, conosco i vestiti capaci di sedurre o imbarazzare, certi segreti e certe vergogne, spesso l’indirizzo, che saprei trovare, se solo esistessero i posti dove abitano.
E cose, osservate nella loro vita attiva in relazione con la nostra: case bianchissime, chiese, cuffie da bagno, tailleur, lettere micidiali.
Ma anche alberi, erbe, arbusti, piante in vaso e rovi perfino, protagonisti ignari dei racconti, insieme ai mille laghi in cui si nuota o si annega. Sono naturalmente aceri, ma anche abeti azzurri, cedri, pini neri, salici, olmi, pioppi rossi, betulle, castagni e meli, e radure sconfinate di tarassaco, lappe, piantaggini, ortiche, verghe d’oro, crescione, monarda didima e melissa. Come l’erbario poetico di Seamus Heaney che si conclude con un elenco di erbe spontanee da fiore e con la dichiarazione di un’appartenenza.
«Tra erica e calendula,
tra sfagno e ranuncolo,
tra tarassaco e ginestra,
nontiscordardimé e caprifoglio,
come tra azzurro chiaro e nuvola,
tra pagliaio e cielo al tramonto,
tra quercia e tetto d’ardesia,
passai la mia esistenza. Lì fui,
io nel luogo e il luogo in me».
Infine, le stagioni e le località, il tempo e lo spazio, tutte le immaginarie cittadine dell’Ontario come Walley, Jubilee, Hanratty, Dalgleish, che Munro ha inventato traducendole dalle reali Wingham, Guelph, Clinton, Kitchener. Perché Munro è nel luogo e il luogo in lei, oltre che nella geologia della sua lingua.
Ricordo la potenza della gioia con cui nel 2013 accolsi la notizia del Nobel: una telefonata dalla casa editrice. È stato così anche questa volta e ho sentito dentro un silenzio quieto, come di neve. Ci vorrebbe lei, per descriverlo.
Susanna Basso
Klara e il Sole è il nuovo romanzo di Kazuo Ishiguro, il primo dopo il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura. «Dopo Quel che resta del giorno e Non lasciarmi, Ishiguro firma un altro capolavoro (parola rischiosa, ma stavolta è il caso di sbilanciarsi). Opera visionaria ed elegiaca di bellissimo spessore […] Il libro conquista per limpidezza dello stile, profondità delle implicazioni esistenziali e stratificazione dei livelli narrativi. Di volta in volta il grande gioco di Ishiguro si esprime in cenni, trasparenze e piccole dosi» (Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Seduta in vetrina sotto i raggi gentili del Sole, Klara osserva il mondo di fuori e aspetta di essere acquistata e portata a casa. Promette di dedicare tutti i suoi straordinari talenti di androide B2 al piccolo amico che la sceglierà. Gli terrà compagnia, lo proteggerà dalla malattia e dalla tristezza, e affronterà per lui l’insidia piú grande: imparare tutte le mille stanze del suo cuore umano.
Josie è una bambina fragile, pallida, insicura nel camminare e afflitta da un male oscuro; la sceglie, è Lei quella che vuole e la porta nella sua casa luminosa, dove si vede il Sole che tramonta. E quando la malattia di Josie colpisce più duramente, Klara sa che cosa fare: deve trovare colui da cui ogni nutrimento discende e intercedere per la sua protetta, anche a costo di qualche sacrificio; deve impegnarcisi anima e corpo, come se anima e corpo avesse.
«In effetti il libro parla soprattutto di emozioni e relazioni. S'interroga sui rapporti e i sentimenti in un contesto modificato dalla scienza e dalla tecnologia. Si può sostituire una persona che muore per evitarci il dolore della perdita? Un individuo è unico negli algoritmi e in altri dati? Se lo è, in che modo questo trasformerà la nostra affettività? Come cambierà l'amore, qualora potessimo trasferire un essere su una banca dati? Sono le questioni che ho voluto porre attraverso gli occhi di Klara e della sua innocenza» (Kazuo Ishiguro intervistato da Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Il nuovo romanzo di Ishiguro «ha una sua specifica qualità geologica: si parte da uno strato superficiale, vestito da futuribile, e si scava verso un centro antico quanto il pensiero dell'uomo su se stesso: che cosa, in ultimo, ci rende umani? Ishiguro non lo dice mai forte, però leggendolo lo si intuisce un po' ovunque: amare ed essere amati» (Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»).