Giulio Einaudi editore
Javier Marías

Alcuni anni fa, in occasione di un incontro con i lettori romani, scrissi le parole che seguono e che pubblico soltanto ora perché, da un’ora, ho saputo che Javier Marías è morto, nella sua Madrid. Non sapevo che stesse così male.
Preferisco pubblicare queste parole pensate con calma per lui piuttosto che improvvisare trascinato dall’emozione, dalla tristezza, dalla mancanza.

«Raccontare è quasi sempre un regalo», scrive Javier Marías nella prima pagina di Il tuo volto domani. E se ogni lettore prova a ripensare i libri letti e amati nel corso del tempo e lungo la propria vita non fatica a scoprire o a riconoscere la naturale verità di queste parole. Esistono scrittori a cui siamo grati per un libro o due, per una storia, per un personaggio, addirittura per un dialogo o una frase, o anche solo per una scena, che entra così a far parte del catalogo di quelle scene assolute – come le chiamava Stevenson – che si imprimono per sempre nella nostra memoria e che ci servono nel corso della vita per dar forma alle nostre esperienze, ai sentimenti, ai pensieri. Anche per questo si legge, non per trovare formule, ma per cercare forme. E con esse provare a fermare provvisoriamente l’indefinito che incontriamo sul nostro cammino.
Differente, e più raro, è il caso degli scrittori a cui siamo grati per aver creato un regno in cui, se certamente loro sono sovrani, noi lettori di sicuro non ci sentiamo sudditi ma cittadini. Voglio dire che in quel regno, sempre a intermittenza fra verità e immaginazione, noi non ci sentiamo in alcun modo costretti, ma ci ritroviamo. Ne condividiamo i luoghi e il tempo, le aperture fantastiche e il lato oscuro, le figure, le citazioni, le letture e perfino i tic, che riconosciamo come segnali di orientamento. In questi casi allora non si tratta di una singola storia, di un personaggio o di una scena assoluta, ma di un’opera, o meglio di un universo in movimento, di una «forma di durata», «quel luogo della mia eternità» – come scrive Marías – che ci convoca al proprio interno da ogni punto della sua sfera, sia che abbia la forma narrativa di un romanzo o di un racconto, di una poesia, di un saggio, di uno scherzo, o anche solo di un articolo di giornale o di una cronaca sportiva. Credo che Javier Marías appartenga a questo genere ultimo di scrittori. Certo, come sempre, li si può incontrare o disincontrare, ma se li si incontra allora sarà difficile preferire o rifiutare questo o quel libro, nel nostro caso Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, L’uomo sentimentale, Vite scritte, Quand’ero mortale, (oggi aggiungo) Così ha inizio il male, Berta Isla, Tomás Nevinson. Piuttosto li si distinguerà come passaggi differenti di una stessa città, in cui avviene sempre, in mille forme diverse, uno stesso evento, un gioco che diventa anche il nostro gioco. «So che nel momento di scrivere o raccontare storie e inventare personaggi – dice Marías – ho saputo o ho riconosciuto oppure ho pensato cose che solo nella scrittura si possono sapere o riconoscere o pensare. A volte solo nella finzione, ecco, nella scrittura di romanzi e racconti. Spesso mi torna presente l’esistenza di qualcosa che si tende a dimenticare e che anticamente si chiamò “pensiero letterario”, differente da qualsiasi altro, da quello scientifico e filosofico, da quello logico e matematico e perfino da quello religioso e politico». Marías spiega che non si tratta di un pensiero sulla letteratura, ma di un modo di pensare letterariamente il mondo, un pensiero difficile da definire perché può contraddirsi e non è soggetto ad alcuna dimostrazione o verifica, può sembrare arbitrario, capriccioso e perfino ridicolo. È una forma di «riconoscimento», che ci fa dire: ecco, è così. Insomma, «è un modo di sapere che si sa ciò che non si sapeva di sapere».
La letteratura che interessa a Javier Marías, come scrittore ma anche come lettore, è quella che, senza proporsi di spiegarlo, «racconta il mistero». Se il nostro sentire accoglie un’idea del mondo e dell’esperienza fatta sia da ciò che è accaduto che da ciò che sarebbe potuto accadere, sia da ciò che è reale e sia da ciò che è, più profondamente, vero, sia dall’immaginazione che dal ragionamento, non avremo trovato solo un libro o qualche storia, ma un regno in cui, senza consolazione alcuna, potremo riconoscerci.

Ernesto Franco, Cittadino Onorario del Reino de Redonda