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Dopo il grande successo di Resto qui, Marco Balzano torna con un racconto profondo e tesissimo di destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere. Quelli di chi va e quelli di chi resta.
Daniela se n'è andata lasciando solo poche righe per spiegare la sua partenza; sa che il marito e soprattutto i figli non avrebbero capito, ma sa anche che quello strappo è necessario per garantire un futuro alla famiglia. Parte per Milano come tante altre donne rumene, a fare di volta in volta la badante, la baby-sitter, l’infermiera… e quella che doveva essere un’esperienza fugace diventa una seconda vita, e i ritorni a casa si fanno sempre più rari.
Quando tornerò è «una storia che conosciamo, che spesso ha attraversato casa nostra senza che facessimo mai troppe domande. Marco Balzano ha scritto il romanzo sulle domande mai fatte. Sulla tremenda prova di forza di madri che si caricano sulle spalle il destino della famiglia, e per salvarla vanno via, a curare altri dolori in altre famiglie, in altre lingue e quindi in silenzio» (Annalena Benini, «Il Foglio»).
A narrare questa storia sono Daniela e i suoi figli, Manuel e Angelica. Tre voci – nostalgiche, arrabbiate, profondamente umane - che aprono uno squarcio sulla complessa realtà della lontananza, dei vuoti affettivi, degli slanci d’amore e dell’abbandono.
In una bellissima conversazione con Elizabeth Strout su «la Lettura», Marco Balzano ammette che «la madre è un "luogo" in cui ritorno in modo insistente, credo che sia inevitabile. Il rapporto con la madre nasce sempre come un'unità e finisce sempre con un distacco. La madre è destinata a diventare uno strappo e dunque in qualche misura una delusione o una nostalgia per una relazione che non sarà mai più completa».
Quelle che l’autore racconta sono storie di vite che, se non ci fosse qualcuno a raccoglierle, resterebbero impigliate nel silenzio. «Solitudini e dolori, stereotipi, scatti d'ira e slanci d'affetto, rabbiosi come il bisogno da cui nascono, rimbalzano da un Paese all'altro, dall'Est Europa all'Italia cambiando, a tratti e solo per un attimo, le sorti delle persone. Come il vecchio Giovanni che a seconda di come gli gira la chiama "bella gioia o puttana di una rumena". Come Elena con cui una volta i ruoli si invertono e per un giorno è lei a curare la badante immobilizzata dal mal di schiena. Balzano registra quei gesti e quelle parole, quelle inversioni. Come un piccolo, inesorabile archivista della contemporaneità setaccia il presente e si incarica ancora una volta di raccogliere frammenti di umanità, di salvare dagli ingranaggi del sistema persone, scelte e destini» (Cristina Taglietti, «Corriere della Sera»).
«L'immagine di Enea che porta sulle spalle Anchise, il padre ormai anziano, non ci descrive più. Quel gesto da un po' di tempo lo compie qualcun altro. Non è una responsabilità e nemmeno una critica – tutti elementi che a un narratore interessano poco – ma un cambiamento di cui, per una serie di ragioni profonde che forse hanno a che fare con il pudore, il senso di colpa, l'amore stesso, non abbiamo ancora parlato a sufficienza. In quell'immagine di Enea, sostituito da una persona che non ha legami di sangue col vecchio appoggiato sulle sue spalle, si nasconde un dato ancora da rivelare e che per essere messo meglio a fuoco va ripetuto: queste donne sono madri» (Marco Balzano, «L’Espresso»).