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In questo romanzo duro e levigato come un sasso, Cognetti scende dai ghiacciai del Rosa per ascoltare gli urti della vita nel fondovalle. La sua voce canta le esistenze fragili, perse dietro la rabbia, l'alcol e una forza misteriosa che le trascina sempre più giù, travolgendo ogni cosa. Lungo la Sesia come in tutto il mondo, a subire il dolore dell'uomo restano in silenzio gli animali e gli alberi.
Col passo rapido e la lingua tersa dei grandi autori, Paolo Cognetti ha scritto il suo Nebraska: «Erano anni che volevo fare questa “operazione di cover”: scrivere un libro da un disco, da Nebraska. Ho scoperto da poco che anche Denis Johnson, altro scrittore che amo molto, aveva scritto Jesus'son a partire dalla canzone Heroin di Lou Reed; e De André con Non al denaro non all'amore né al cielo è partito dall'Antologia di Spoon River. È un’operazione che ha senso solo se la senti tua, se non è un esercizio di stile. Ascolto Nebraska, grazie a mia sorella, da una vita, quelle canzoni fanno parte di me» (Paolo Cognetti a «la Lettura», in conversazione con Vasco Brondi).
Il nuovo romanzo di Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con Le otto montagne, sta ricevendo una calorosa accoglienza. Ecco alcuni estratti:
«In questo libro bellissimo – brillante come un cristallo di ghiaccio – accade che lungo il corso della Sesia ogni cosa subisca il dolore delle azioni della nostra specie: alberi, donne, uomini e animali».
Stefano Mancuso, «la Repubblica»
«Stavolta oltre Le otto montagne ci è andato davvero […] Cognetti ha questo potere qui che è proprio dei migliori letterati. Far vivere le proprie pagine oltre il tempo presente, come fosse un Melville o un Hemingway, senza la necessità di aggrapparsi a riferimenti e ammiccamenti culturali che fanno salotto buono oggi. L’esposizione dei tormenti interiori dei singoli, infine, è nuda e fiera, partecipata e diretta, tra il dolente bisogno di una calda carezza e la durezza di una selvatica libertà, verso una progressiva faticosa redenzione che riposa in una grazia di scrittura infinita e commovente».
Davide Turrini, «il Fatto Quotidiano», link
«La forma breve è di sicuro la più congeniale a Cognetti, e lui la maneggia con l'assoluta confidenza di chi ha, sviluppatissimo, il senso del ritmo. In certi punti, è come se andasse a orecchio, alternando la violenza e la dolcezza, i battere e i levare, e seguendo la musica interna di ciascun personaggio per poi ricopiarla sulla pagina».
Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»
«Giù nella valle è un libro che invita a fare delle pause. Fermarti un attimo e ricominciare».
Luciana Littizzetto
«Il mondo di mezzo di Giù nella valle è una realtà, in Piemonte come ai piedi degli Appalachi. Chi lo racconta ci aiuta a capire chi siamo».
Stefano Ardito, «Il Messaggero»
«Scende a valle, Paolo Cognetti, si immerge nelle acque della fragilità, nelle ombre delle persone perse, nella vita che sbatte a terra […] Il suo Nebraska nasce così, desolato, dritto al cuore delle cose, sul solco di un dialogo con gli autori, i “suoi classici”, dove musica e racconti trovano un terreno comune: Giù nella valle risuona duro, con la sua caratteristica scrittura asciutta e limpida, senza niente di troppo, che a tratti ha il suono crudo di una ballata per chitarra e armonica».
Francesca Cingoli, «Il Libraio», link
«Cognetti nasce come autore di racconti con un passo veloce e lo sguardo attento, qualità che tornano nel suo nuovo libro […] racconti che si intrecciano e che si chi che si chiudono, si sente l’influenza di Flannery O'Connor, maestra del racconto breve e del suo mondo perduto. Cognetti tesse destini in alta quota mentre racconta le luci lontane delle città, con una certezza amara: se le cose si sono messe male, sei fiumi sono pieni di scorie e i ghiacciai sono solo un ricordo, dobbiamo solo guardarci allo specchio»
Francesco Musolino, «L’Unione Sarda»
«Quelli di Cognetti sono eroi marginali, forse antieroi, e di conseguenza perfettamente calati in una quotidianità feroce che la montagna, sentinella fedele di ogni cosa, non può che certificare. Ma le parole di Cognetti sono anche carezze, non solo letterarie, rivolte ai luoghi che conosce bene e di cui il turismo di massa vorrebbe appropriarsi per ricavarne profitto. Il suo merito è spogliarli della loro apparente lontananza per restituirceli nella loro bellezza più intima e vera, che è anche la nostra salvezza».
Giuseppe Di Matteo, «Quotidiano Nazionale»
La felicità del lupo è il nuovo romanzo di Paolo Cognetti dopo Le otto montagne, il bestseller internazionale vincitore del Premio Strega nel 2017.
Un libro intimo, delicato, che parla di amore, di montagna e della ricerca della felicità. Un libro che, usando le parole dello scrittore durante l’incontro al Circolo dei Lettori di Torino, «mette insieme i ricordi, le esperienze, le persone incontrate. Per il resto, è tutta vita di questi ultimi anni in montagna».
È la storia di Fausto, che si è rifugiato in montagna perché voleva scomparire, e di Silvia, che sta cercando qualcosa di sé per poi ripartire verso chissà dove. Lui ha quarant'anni, lei ventisette: provano a toccarsi, una notte, mentre Fontana Fredda si prepara per l'inverno.
Intorno a loro ci sono Babette – «che esiste davvero. Lei ha un ristorante dove ho lavorato come cuoco una decina d'anni fa […] Lei è una vera artista del rifugio: ha quel talento raro di accogliere e di ascoltare, di farti sentire in un posto caldo mentre fuori, magari, ci sono venti gradi sotto zero» (Paolo Cognetti, «tuttolibri – La Stampa») – e il suo ristorante, Santorso che sa tutto della valle, delle distese di nevi e d'erba che allargano il respiro, e un rifugio a più di tremila metri dove Silvia decide di trascorrere l’estate lavorando.
«Per Fausto tornare in questi luoghi è un ritorno di rinascita, rinvenire il proprio corpo con il suo sesso, il passo e il respiro. Forse il luogo della sua felicità, se felicità è trovare il proprio paesaggio […] Nel romanzo di Cognetti tutti cercano di lambire, forse costruire, magari solo immaginare, senz'ombra alcuna di titanismo, una forma della propria felicità. Persino il lupo, che attraversa le pagine facendoci sentire il suo odore, e noi sentiamo il suo, senza mai farsi vedere» (Vittorio Lingiardi, «la Repubblica»).
Paolo Cognetti, con il suo sguardo luminoso e la sua voce limpida, è riuscito a costruire «un romanzo che è insieme un'ode alla natura e un manuale sulle seconde possibilità nella vita» (Alberto Riva, «il venerdì - la Repubblica»).
Nelle pagine de La felicità del lupo «si respirano il freddo, il tempo che passa lento, l'alternarsi delle stagioni, il profumo del pino cembro, l'odore del fuoco, il sapore della grappa, le solitudini degli uomini […] È un romanzo vivissimo, forse parla dell'uomo che Paolo Cognetti è stato e che siamo tutti mentre cerchiamo il nostro posto nel mondo dopo una perdita o una delusione, o quando dimentichiamo che la vita è fatta di poche cose essenziali, quando perdiamo il contatto col presente» (Daria Bignardi, «Vanity Fair»).