Tag: Hans-Ulrich Obrist
«Un titolo deve confondere le idee, non irregimentarle», ha scritto Umberto Eco in risposta a coloro che gli chiedevano chiarimenti sul misterioso Il nome della rosa.
Quelle parole mi sono tornate alla memoria a proposito di Artivismo. Lo dico subito: non senza un certo azzardo, ho compiuto un deciso slittamento semantico e concettuale. A differenza di quel che lascerebbe intendere il titolo, non mi sono limitato a commentare alcune esperienze «corporali» e sociali maturate dagli inizi del Duemila (come quelle di Tania Bruguera e di Regina José Galindo). Invece, ho utilizzato il termine «artivismo» per descrivere la vocazione politica sottesa ad ampie regioni dell’arte del XXI secolo, muovendomi su diversi piani. Ho cercato di coniugare un discorso fenomenologico con uno più strettamente critico. Da un lato, ho composto una cartografia fatta di continenti all’interno dei quali ho collocato varie famiglie d’artisti, per aiutare a orientarsi nei disomogenei paesaggi dell’arte contemporanea. Dall’altro lato, ho interrogato questo indirizzo estremamente plurale, senza nascondere le mie perplessità e le mie preferenze.
È nato così un percorso abitato da figure che, servendosi di linguaggi e di media differenti, si misurano con alcune emergenze del nostro tempo: il dramma dei migranti, l’apocalisse ecologica, l’emarginazione delle periferie urbane. Intrecciando arte e impegno, queste personalità pensano l’arte come un momento altamente politico, per entrare nella polis. Sulla soglia tra testimonianza e intervento.
In alcuni casi, si limitano a registrare ferite e lacerazioni, sottraendo alla cronaca alcune visioni. In altri casi, entrano nel corpo del reale, immaginando ipotesi di riscatto urbanistico e antropologico: si prendono cura di parti del mondo, fino a dissolvervi le proprie opere. In altri casi ancora, per sottrarsi ai rischi dell’anestetizzazione e a quelli dell’estetizzazione del dolore, vogliono marcare una netta distanza dal giornalismo e dal documentarismo, inclini a coniugare verità e arbitrio, realismo e simbolismo, adesione ed evocazione. L’arte come controvita (per dirla con Philip Roth). Se dovessi confessare quali sono gli artisti politici che prediligo, non esiterei a citare, tra gli altri, Kiefer, Kentridge, Boltanski, Kadishman, Farocki, Muniz, Wall, Neshat, Madani e Walker: ovvero, gli artisti «impolitici».
Queste pluralità di voci rivelano come l’«artivismo» vada interpretato come istanza, come punto di convergenza tra maniere e stili, come confluenza tra ricerche e fermenti. Una pluralità che è raccontata dai brevi video inediti ispirati al tema del libro, realizzati da significativi «artivisti» (sui social Einaudi). Ogni clip propone una declinazione diversa dello stesso tema. Ecco, allora, il contributo del don’t stop curator Hans-Ulrich Obrist, che elogia i progetti espositivi capaci di eccedere la cornice espositiva, per diventare altro da sé, stati di eccezione. Ed ecco il precursore, Michelangelo Pistoletto, animato dal bisogno di passare dall’atto della protesta a quello della proposta. Ed ecco Alice Pasquini, che concepisce l’evento del dipingere sui muri come un modo per attraversare quegli stessi muri. Ed ecco, ancora, Ai Weiwei, che arriva a disegnare l’orizzonte di un territorio all’interno del quale arte e azione confluiscano e si confondano: estetica e morale devono coincidere. Infine, ecco un artista apparentemente lontano da una sensibilità civile, come Mimmo Paladino. Mentre viene inquadrato un atelier stratificato di attrezzi, di tele, di materie, sentiamo la sua voce fuori campo: «Ogni gesto è opera politica, poi qualcosa sfugge e va oltre il cancello dello studio, diventando un simbolo». In questa riflessione è la mia idea di «artivismo».
Vincenzo Trione