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Dopo Promemoria, il suo esordio in versi, Andrea Bajani torna nella «Bianca» con Dimora naturale. Un libro attraversato da molti animali. Da quelli selvaggi dei documentari che ci ipnotizzano in tv, a gabbiani e storni osservati nei cieli cittadini, dal polpo di cui si è scoperto un cervello diffuso lungo il corpo fino alle mosche dipinte sugli orinatoi. Tra questi l’uomo, specie tra le specie, vorticante insieme alle altre sul pianeta; come loro cerca il contatto con la terra e come tutti non la riconosce più dopo averla violata così tanto.
Il lavoro dell’autore è stato accolto calorosamente dalla critica e da molte firme autorevoli del mondo letterario italiano:
«Dimora naturale, di Andrea Bajani, è un libro in cui spiccano due testi consacrati alla poesia come strazio vocale o asteroide. Ma vanno lette con attenzione anche le composizioni sulla farmacia, “un negozio con dentro gli attrezzi | per riparare il dolore della specie”, sui cani che ci guardano sotto forma di documentari, sui cantieri stradali come una forma di sollievo della terra. Queste 50 liriche di 8 versi l’una formano un canzoniere talmente ispirato e piano da risultare anomalo nel senso più alto del termine».
Valerio Magrelli
«C’è un gabbiano che, forse per sbaglio, porta il mare sul terrazzo, e c’è un poeta che si interroga sul senso di questo disorientamento animale: prendere una palazzina anni Cinquanta per la propria dimora naturale. È lo scarto che conta (il gabbiano fuori luogo), la lontananza che si fa presenza allucinata o la coincidenza inattesa (e quasi miracolosa) tra l’umano e il non umano? Dove sta la minaccia? Ed è poi davvero una minaccia? La poesia è in questa “dimora naturale” che apre vertigini ed enigmi».
Paolo Di Stefano
«Un decentramento dello sguardo, un fascino dell'elevazione e della levità, che fa venire in mente, certo, il leopardiano Elogio degli uccelli, e più in generale quell'avventura propria di una tradizione poetica che intende la lingua della poesia come resistenza alla fine dell'infanzia: una resistenza che cerca di accogliere, di quel perduto fiabesco mondo vivente, echi, sguardi, fantasmi. Senza rimpianto, ma trasformando il lontano incantamento in conoscenza fantastica».
Antonio Prete, «Alias – il manifesto»
«Un'ironia amara e paradossale anima le poesie di Bajani, mai sfiorate dal rischio della solennità. Quale sarà, si chiede ancora il poeta, la voce della nostra specie? “Non è un grugnito o un miagolio | è un po' belato un po' starnazzo. È la poesia, lo strazio vocale di ogni io. Bello o brutto, è il verso che facciamo”. Il basso continuo dell'ironia si rovescia cosi in una pietas creaturale universale, sì che potremmo leggere l'intera raccolta come un sermo humilis, un invito ricorrente a riscoprire il valore supremo della gentilezza, “che è senza spiegazioni, non ha ratio”, ma come “forza pura e disarmata, | si propaga come suono nello spazio”. Un po' come la bontà illogica di Vasilij Grossman».
Franco Marcoaldi, «Robinson – la Repubblica»
«L'angolazione di Bajani permette aperture filosofiche, diventa pensiero poetante: innesca una serie di immagini che in sintesi ci parlano della nostra vita, del nostro essere in precario equilibrio in un mondo che crediamo solo di conoscere. Il mistero viene dall'interazione con la bellezza, naturale appunto, degli animali che ci affiancano: chi siamo, e quanto siamo diversi da loro? Il nostro cervello, di cui abbiamo la tendenza a vantarci, per Bajani è un abnorme fardello, una condanna. Il nostro stesso linguaggio, e in particolare quello poetico, è misurato su parametri animali: se l'inchiostro è spruzzato dalle seppie come forma di difesa, Bajani si chiede "qual è la ghiandola … che secerne questi versi" e, soprattutto, quale sia la minaccia che il poeta deve affrontare. La domanda è dunque sul senso stesso della poesia, difesa contro il dolore provocato dalla vita o forse, meglio ancora, contro la difficoltà a capirne il senso e il valore. Gran parte della letteratura del secolo breve ha ruotato intorno a questo tema e a questa domanda, molto esistenziale e poco letteraria e ora forse si avvicina a una nuova domanda: quanto c'è di "natura" in noi, quanto ne abbiamo bisogno, anzi quanto è indispensabile?»
Bianca Garavelli, «Avvenire»
«La coerenza poetica, rispetto al precedente libro, si trova appunto nella dimensione metaletteraria, anzi Bajani sembra proprio riprendere il filo di un tema esaminato in precedenza: come trovare salvezza nella parola. Lo fa all'interno di un valore comparativo, tanto da ricordarci un altro validissimo autore, Ivano Ferrari e il suo Macello».
Mary B. Tolusso, «Il Piccolo»
«Ma c'è anche quello che Michel Serres chiama “mondo muto” in questo piccolo e prezioso libro, la terra, i fiumi, i laghi, sconvolti dalle alterazioni climatiche, che parla appunto di un nuovo patto con la natura, la terra che in alcuni di questi versi “riprende a respirare” dopo che gli operai con la scavatrice spaccano la strada, una volta “ristabilito il patto originale”».
Angelo Ferracuti, «il manifesto»
«Quarantanove componimenti più uno, tutti di otto versi, che sono “lo strazio vocale di ogni io”, la voce della specie cui apparteniamo. Quando è così ispirata, questa voce riesce a rendere più tollerabile la nostra appartenenza, almeno per chi ha il privilegio di ascoltarla».
Rosella Postorino, «Tuttolibri – La Stampa»
«Poco prima del Giubileo arrivai a Roma, vedevo i gabbiani in città e mi parevano orfani del mare. Negli anni Dieci hanno invaso l'Urbe e io sono tornato a Milano. Oggi, di passaggio a Roma, ho trovato nel nuovo libro di Andrea Bajani l'esatta espressione di quel doppio disorientamento che suscita la vista di questi uccelli regali e il loro destino vile e minaccioso di spazzini predatori».
Luca Mastrantonio, «Sette – Corriere della Sera»