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Dopo Io sono il castigo e Un cuore sleale, esce la terza indagine del magistrato melomane Manrico Spinori, il primo protagonista seriale di Giancarlo De Cataldo: «Un personaggio del tutto inedito disegnato dal Maestro De Cataldo, autore che potremmo definire dalla penna d'oro […] conte in virtù delle ascendenze aristocratiche, è sicuramente uno dei più riusciti» (Gabriella Genisi, «tuttolibri – La Stampa»).
In questa vicenda, una frase buttata lí da un pentito, all’apparenza in modo casuale, produce un piccolo terremoto in procura. Perché a dar retta a er Farina – spacciatore con contatti importanti nella malavita organizzata – dieci anni prima il dottor Spinori non aveva fatto un buon lavoro occupandosi dell’assassinio di Veronica, escort transessuale d’alto bordo. Del delitto era stato accusato un uomo che, a causa dello scandalo, si era tolto la vita.
«Attraverso un'indagine raccontata con i toni garbati della commedia italiana il lettore viene condotto nella zona grigia del mondo di mezzo, delle connivenze tra mafia e colletti bianchi ma soprattutto, in un unicum per la letteratura poliziesca, si renderà conto del lavoro di squadra che coinvolge magistratura, polizia, carabinieri e guardia finanza, oltre che dell'importanza dei dettagli. Perfino di un vassoio di cannoli siciliani» (Gabriella Genisi, «tuttolibri – La Stampa»).
Nonostante le prove schiaccianti, dopo le parole di er Farina, tutto torna in discussione. Un colpo al cuore per un magistrato attento come Manrico, che diventa ombroso e, nel generale scetticismo, riapre le indagini, scoprendo un intrigo di cui nessuno poteva sospettare. Questa volta avrà bisogno della sua squadra, un affiatato gruppo di formidabili investigatrici che, per l’occasione, registra anche un nuovo ingresso.
«Al solito De Cataldo sfoggia un solidissimo mestiere. I dialoghi sempre credibili e pieni di sprazzi gergali sono il frutto dell'esperienza di uno sceneggiatore consumato. La struttura è colma di informazioni potenti e concrete sui meccanismi investigativi e giudiziari. I legami col melodramma, precisi e sorprendenti, ci rammentano che non esiste alcuna delittuosa situazione che non sia stata evocata e narrata da un'opera. E il romanzo brilla di un bel timbro da giallo all'italiana, definito da una relazione stretta con la vivida realtà territoriale e dalla presenza delle maschere più riconoscibili e significative della nostra eterna commedia dell'arte. Applausi» (Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Il vicequestore Vanina Guarrasi si sta abituando faticosamente a vivere a Catania. È una donna tenace, abituata a lottare, animata da uno spirito realistico; della sua isola non riconosce solo la bellezza ma anche i suoi aspetti oscuri.
Sa cos'è il male, l'ha sperimentato sulla sua pelle: il padre, ucciso dalla mafia davanti ai suoi occhi, è ancora protagonista dei suoi sogni, disteso sul marciapiede, con il corpo martoriato. Lei stessa è stata minacciata, un proiettile trovato nella sua casa la costringe a vivere sotto scorta.
«Un personaggio complicato, Vanina. Palermitana, reduce da anni di militanza nell'antimafia, figlia di un ispettore di polizia ucciso davanti ai suoi occhi da Cosa Nostra nei primi anni novanta ed ex compagna di un magistrato della Dda che ha abbandonato quando è scappata via da Palermo. Una donna in perenne fuga dal passato, che ai piedi dell'Etna, o meglio della muntagna, ha trovato la sua dimensione ideale. Per lo meno, lei ne è convinta. Cinefila accanita, collezionista di vecchi film e di pellicole girate in Sicilia; buongustaia ma del tutto incapace di gestire un fornello; fumatrice di Gauloises e insonne per natura» (Cristina Cassar Scalia, «tuttolibri – La Stampa»).
Nella grotta di un fiume sotterraneo, l'Amenano, che scorre sotto il centro storico di Catania, viene trovato il corpo di un uomo: Vincenzo Maria La Barbera. Era un eccentrico professore di Filosofia che viveva in una barca, impegnato non solo ad insegnare: voleva salvare i giovani dai pericoli della città. Con la sua fidanzata, Vera Fisichella, stava per creare una comunità per ragazzi problematici.
Persona «troppo perbene» dicono in Questura, il caso sarà difficile. Il mistero di questo assassinio si intreccia con le vicende di Vanina, in una trama avvincente: «Cassar Scalia è abilissima nell'intrecciare i piani del romanzo. Da una parte la vita della protagonista, i pensieri intimi, i ricordi, le paure, il trauma che non riesce a superare, l'impossibilità di vivere nel presente, l'amore tormentato per un uomo che potrebbe finire come il padre, morto ammazzato. Dall'altra il rompicapo intellettuale, il giallo che cattura i lettori. Il canone è rispettato, i personaggi secondari affastellano la scena: c'è la mitica vicina di casa Bettina e il commissario in pensione Biagio Patanè, uno sbirro vecchio stampo che sembra un omaggio alla figura di Camilleri. Saggio e maestro, arcaico nella lingua e nei modi, lucido e generoso. E c'è la Sicilia, terra di delitti e misteri, che resiste all'ombra della Muntagna e insegue con i suoi fantasmi anche chi, a quei fantasmi, ha dedicato la vita» (Stefania Parmeggiani, «Robinson – la Repubblica».
Con L’uomo del porto «Cassar Scalia si conferma una delle voci più autorevoli del giallo italiano, costruendo un fitto intreccio di azione e sentimenti, spingendo Vanina al cospetto di dilemmi etici e sentimentali, ravvivando con forza il legame con i suoi lettori» (Francesco Musolino, «La Gazzetta del Sud», link).
Klara e il Sole è il nuovo romanzo di Kazuo Ishiguro, il primo dopo il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura. «Dopo Quel che resta del giorno e Non lasciarmi, Ishiguro firma un altro capolavoro (parola rischiosa, ma stavolta è il caso di sbilanciarsi). Opera visionaria ed elegiaca di bellissimo spessore […] Il libro conquista per limpidezza dello stile, profondità delle implicazioni esistenziali e stratificazione dei livelli narrativi. Di volta in volta il grande gioco di Ishiguro si esprime in cenni, trasparenze e piccole dosi» (Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Seduta in vetrina sotto i raggi gentili del Sole, Klara osserva il mondo di fuori e aspetta di essere acquistata e portata a casa. Promette di dedicare tutti i suoi straordinari talenti di androide B2 al piccolo amico che la sceglierà. Gli terrà compagnia, lo proteggerà dalla malattia e dalla tristezza, e affronterà per lui l’insidia piú grande: imparare tutte le mille stanze del suo cuore umano.
Josie è una bambina fragile, pallida, insicura nel camminare e afflitta da un male oscuro; la sceglie, è Lei quella che vuole e la porta nella sua casa luminosa, dove si vede il Sole che tramonta. E quando la malattia di Josie colpisce più duramente, Klara sa che cosa fare: deve trovare colui da cui ogni nutrimento discende e intercedere per la sua protetta, anche a costo di qualche sacrificio; deve impegnarcisi anima e corpo, come se anima e corpo avesse.
«In effetti il libro parla soprattutto di emozioni e relazioni. S'interroga sui rapporti e i sentimenti in un contesto modificato dalla scienza e dalla tecnologia. Si può sostituire una persona che muore per evitarci il dolore della perdita? Un individuo è unico negli algoritmi e in altri dati? Se lo è, in che modo questo trasformerà la nostra affettività? Come cambierà l'amore, qualora potessimo trasferire un essere su una banca dati? Sono le questioni che ho voluto porre attraverso gli occhi di Klara e della sua innocenza» (Kazuo Ishiguro intervistato da Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Il nuovo romanzo di Ishiguro «ha una sua specifica qualità geologica: si parte da uno strato superficiale, vestito da futuribile, e si scava verso un centro antico quanto il pensiero dell'uomo su se stesso: che cosa, in ultimo, ci rende umani? Ishiguro non lo dice mai forte, però leggendolo lo si intuisce un po' ovunque: amare ed essere amati» (Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»).
Dopo il grande successo di Resto qui, Marco Balzano torna con un racconto profondo e tesissimo di destini che ci riguardano da vicino, ma che spesso preferiamo non vedere. Quelli di chi va e quelli di chi resta.
Daniela se n'è andata lasciando solo poche righe per spiegare la sua partenza; sa che il marito e soprattutto i figli non avrebbero capito, ma sa anche che quello strappo è necessario per garantire un futuro alla famiglia. Parte per Milano come tante altre donne rumene, a fare di volta in volta la badante, la baby-sitter, l’infermiera… e quella che doveva essere un’esperienza fugace diventa una seconda vita, e i ritorni a casa si fanno sempre più rari.
Quando tornerò è «una storia che conosciamo, che spesso ha attraversato casa nostra senza che facessimo mai troppe domande. Marco Balzano ha scritto il romanzo sulle domande mai fatte. Sulla tremenda prova di forza di madri che si caricano sulle spalle il destino della famiglia, e per salvarla vanno via, a curare altri dolori in altre famiglie, in altre lingue e quindi in silenzio» (Annalena Benini, «Il Foglio»).
A narrare questa storia sono Daniela e i suoi figli, Manuel e Angelica. Tre voci – nostalgiche, arrabbiate, profondamente umane - che aprono uno squarcio sulla complessa realtà della lontananza, dei vuoti affettivi, degli slanci d’amore e dell’abbandono.
In una bellissima conversazione con Elizabeth Strout su «la Lettura», Marco Balzano ammette che «la madre è un "luogo" in cui ritorno in modo insistente, credo che sia inevitabile. Il rapporto con la madre nasce sempre come un'unità e finisce sempre con un distacco. La madre è destinata a diventare uno strappo e dunque in qualche misura una delusione o una nostalgia per una relazione che non sarà mai più completa».
Quelle che l’autore racconta sono storie di vite che, se non ci fosse qualcuno a raccoglierle, resterebbero impigliate nel silenzio. «Solitudini e dolori, stereotipi, scatti d'ira e slanci d'affetto, rabbiosi come il bisogno da cui nascono, rimbalzano da un Paese all'altro, dall'Est Europa all'Italia cambiando, a tratti e solo per un attimo, le sorti delle persone. Come il vecchio Giovanni che a seconda di come gli gira la chiama "bella gioia o puttana di una rumena". Come Elena con cui una volta i ruoli si invertono e per un giorno è lei a curare la badante immobilizzata dal mal di schiena. Balzano registra quei gesti e quelle parole, quelle inversioni. Come un piccolo, inesorabile archivista della contemporaneità setaccia il presente e si incarica ancora una volta di raccogliere frammenti di umanità, di salvare dagli ingranaggi del sistema persone, scelte e destini» (Cristina Taglietti, «Corriere della Sera»).
«L'immagine di Enea che porta sulle spalle Anchise, il padre ormai anziano, non ci descrive più. Quel gesto da un po' di tempo lo compie qualcun altro. Non è una responsabilità e nemmeno una critica – tutti elementi che a un narratore interessano poco – ma un cambiamento di cui, per una serie di ragioni profonde che forse hanno a che fare con il pudore, il senso di colpa, l'amore stesso, non abbiamo ancora parlato a sufficienza. In quell'immagine di Enea, sostituito da una persona che non ha legami di sangue col vecchio appoggiato sulle sue spalle, si nasconde un dato ancora da rivelare e che per essere messo meglio a fuoco va ripetuto: queste donne sono madri» (Marco Balzano, «L’Espresso»).
Manhattan, 2022. All’improvviso, non annunciato, misterioso: il silenzio. Tutta la tecnologia digitale ammutolisce. Internet tace. I tweet, i post, i bot spariscono. Gli schermi, tutti gli schermi, che come fantasmi ci circondano ogni momento della nostra esistenza, diventano neri. Le luci si spengono, un black-out avvolge nelle tenebre la città (o il mondo intero? Del resto come fare a saperlo?)
Cosa sta succedendo? È l’inizio di una guerra, o la prima ondata di un attacco terroristico? Un incidente?… Di certo c’è questo: era dai tempi di Rumore bianco che Don DeLillo non ci ricordava con tanta accecante precisione che viviamo, disperati e felici, in un mondo delilliano.
Come tutti i lavori dello scrittore americano anche Il silenzio ha suscitato un forte dibattito. Di seguito vi proponiamo alcuni estratti della calorosa accoglienza da parte della stampa italiana:
«"La vita può essere così interessante che dimentichiamo di aver paura”, scrive DeLillo, ed è da questo concetto che si sviluppano i temi del libro, raccontati ancora una volta magistralmente attraverso personaggi vulnerabili e spaesati, due dei quali reduci da un disastro aereo. Giunto ad ottantaquattro anni, DeLillo ribadisce la sua ammirevole e assoluta originalità di sguardo, e alterna la riflessione sui temi contemporanei a quelli eterni: la geopolitica, la tecnologia digitale, la grafologia e soprattutto il senso della fine».
Antonio Monda, «la Repubblica»
«[…] È un luogo angoscioso e cupo, ma al momento è l'unico che abbiamo, e ci dobbiamo stare. E continuo a pensare che Don DeLillo, l'ultimo americano, fosse l'unico scrittore al mondo che avesse la potenza, l'onestà, e il coraggio di darsi in sacrificio per dircelo. In Cosmopolis sta scritto: “Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito”. Ne Il silenzio non siamo morti, e non siamo finiti, ma il mondo sì: la quarta guerra sarà una genesi, e si combatterà con le parole».
Claudia Durastanti, «tuttolibri – La Stampa»
«DeLillo non chiarisce le ragioni del blackout. Ci coglie di sorpresa quando la tv si spegne a inizio partita, alle 18.30. Non ha consolazioni da offrirci. La realtà è quello che è, dobbiamo farcene una ragione. Come nel capolavoro Underworld (1997), tutto parte da un evento sportivo (in quel caso l'incontro di baseball tra i New York Giants e i Brooklyn Dodgers del 1951). In uno dei momenti più surreali della storia, Max fa la telecronaca della partita davanti allo schermo nero. Deve restare aggrappato ai ricordi. Prima di uscire di scena, il fan di Einstein Martin Dekker si congeda così: "Il mondo è tutto, l'individuo niente. Lo vogliamo capire?"».
Marco Bruna, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Americana, suo debutto del 1971, e Il silenzio sono gli estremi di un affresco sulla storia contemporanea –che si estende per migliaia di pagine distribuite in una ventina di volumi– sempre impietoso e coerente. […] DeLillo batte i suoi romanzi su una vecchia macchina per scrivere, e non possiede nemmeno uno smartphone. Eppure nessuno meglio di lui sa, prima ancora che raccontare, percepire le crepe del nostro tempo. A 84 anni, con il Novecento sulle spalle, ha la vista più lunga di tutti verso il domani che si profila all'orizzonte».
Crocifisso Dentello, «il Fatto Quotidiano»
«L'oscurità che caratterizza Il silenzio si inserisce come una tessera riconoscibile nel mosaico di DeLillo. Il lettore potrà intravedere l'esito di Underworld nel passaggio dall'età industriale a quella digitale con l'implosione della realtà gonfiata da desideri superflui. Ci sono la dimensione dell'apocalisse, della tossicità dell'iperconsumismo e del progresso tecnologico che incombono in Rumore bianco, con cui DeLillo ha vinto nel 1985 il National Book Award».
Grabriele Santoro, «Il Messaggero»
«E per una volta anche il recensore vorrebbe imitare lo scrittore: leggete Il silenzio, mettete insieme le schegge che lo compongono, trovatene il senso, non trovatelo, trovate una via di mezzo o chissà cos'altro. Ecco il romanzo: andare soli in una foresta per trovarsi smarrendosi, eccitati e delusi, colpiti e annoiati, incerti e risvegliati. E qualcuno dirà: ma non è mica questo, che accade oggi nella stragrande maggioranza dei "romanzi"! Be', allora quella stragrande maggioranza di cose scritte non sono romanzi, e che tocchi a un ottantaquattrenne ricordarcelo: ah, questo è deliziosamente ironico…»
Giuseppe Montesano, «Il Mattino»
«I cinque protagonisti hanno già sperimentato il lockdown e capiscono subito che in confronto era stata una passeggiata. La percezione di quel che accade altrove, oltre la finestra, è sempre più vaga. Il tutto descritto nella solita vertigine che solo DeLillo sa creare frullando lo scibile intero: l'arte digitale, la comunicazione, l'economia, la medicina, la filosofia, il football americano. Un "vuoto barcollante" raccontato con la consueta poesia, tra schermi neri e luci di candela».
Mario Salvini, «La Gazzetta dello Sport»
Il 2 febbraio è uscito per Einaudi Stile Libero il nuovo caso di Vincenzo Arcadipane e Corso Bramard, Una rabbia semplice. Contestualmente la collana ha ripubblicato anche i due precedenti romanzi della serie, Il caso Bramard e Le bestie giovani.
L’arrivo nelle librerie di questi tre romanzi è stato accompagnato dalle calorose parole di Alessandro Baricco: «Chiedo, e trovo gente che non ha mai letto la saga di Bramard e Arcadipane. Oh, ma vogliamo scherzare? Quei due sono la risposta del Nord al commissario Montalbano! Sono l’invenzione del poliziesco piemontardo! Fango e pioggia, schiene diritte, tristezza, amori disperati, humor impassibile, violenza sepolta, sogni poetici, anarchia. E i corpi? Altro che la siciliana fisicità splendente. Qui i corpi sono una debolezza, un incidente, uno scandalo, una scusa. Scritture di cui si è persa la chiave. Solo nelle nebbie del Nord, dove “il sole è un lampo giallo al parabrise”, c’è gente del genere, e Longo la racconta da dio, con quel suo scrivere che ho studiato a lungo, come potrei studiare un cocktail, e adesso credo di aver capito: due parti di Fenoglio, due di Simenon, una di Paolo Conte e cinque di Davide Longo. Aggiungere una spezia che non so (qualcosa come una goccia di disperazione, direi, ma non so) e servire. Ne butti giú uno e poi non smetti piú. Giuro».
È una primavera malinconica per il commissario Arcadipane. Ha cinquantacinque anni, un matrimonio fallito alle spalle e un futuro che non promette granché. Due anni di solitudine senza la moglie e con i figli che ormai hanno la loro vita.
Un caso, però, risveglia la sua attenzione e l'istinto che credeva aver perduto: una donna colombiana, Dolores Mendes, viene aggredita fuori da una stazione della metropolitana di Torino. Sembra un caso facile, il colpevole viene subito rintracciato dalle telecamere della stazione, vestito con un kimono, i bermuda a fiori e una maschera. È un ragazzo di periferia con capelli rasati ai lati che spaccia vicino al suo vecchio istituto, spesso coinvolto in risse. La soluzione sembra a portata di mano ma il commissario non è soddisfatto e vuole indagare più a fondo con l'aiuto del suo vecchio capo, Corso Bramard, in lotta contro un male oscuro, e dell'agente Isa Martini.
Una rabbia semplice ha ricevuto subito un’ottima accoglienza da parte della critica. Ecco alcuni estratti:
«Davide Longo è un appartato, una bestia rara. Scrive noir, o forse no. Scrive mondi. Ha inventato un commissario in congedo che si chiama Corso Bramard ed è un uomo verticale, algido, una scultura di Giacometti col passo anche interiore di un Clint Eastwood, insieme a un altro commissario che è il suo allievo anche se ha già 55 anni e di nome fa Vincenzo Arcadipane, un trattore, una macchina basculante costruita per funzionare. Quanto è mentale Bramard, tanto è corporeo Arcadipane che in saccoccia tiene un mucchio di sucai da estrarre compulsivamente e ingoiare insieme ai pelucchi che stanno sul fondo delle tasche. Due così non li dimentichi».
Maurizio Crosetti, «la Repubblica»
«Perché parte tutto da quello che sembra un brutto ma semplice fattaccio di cronaca, con una donna in coma per essere stata presa a calci in metropolitana, e poi si allarga a qualcosa che diventa più grande, e per quanto sembri una follia posso assicurarvi che accade davvero, e proprio per questo deve farci paura […] L'avevo perso, l'ho ritrovato e non lo mollo più. Davide Longo è uno dei grandi».
Carlo Lucarelli, «Corriere della Sera»
«Simbolica via di mezzo tra "una nuvola d'ira" e "una questione privata", comunque distante dalla lugubre ferocia dell'ennesimo massacratore seriale preda delle sue deliranti fobie. Una rabbia quasi immobile, quella dipinta con profonda partecipazione emotiva da Davide Longo, che torna a muovere le fila dei suoi recenti protagonisti con la rustica volontà di scavare nell'anima più che nel sangue […] Non sappiamo se siamo stati più coinvolti dalla trama umanamente in crescendo o dai personaggi che vivono le loro faticose storie sbattendosi per portare a casa un stella al merito per sopravvivere».
Sergio Pent, «tuttolibri – La Stampa»
Il commissariato di Pizzofalcone non è più una presenza precaria nel quartiere: una serie di brillanti operazioni e un lavoro di squadra ormai collaudato lo hanno reso un riferimento stabile. «La metamorfosi da accozzaglia di "poliziotti rottamati" da altri commissariati - questo erano all'origine i Bastardi - ognuno con qualcosa da farsi perdonare nel suo percorso professionale, a team dove ognuno può contare sull'altro; la trasformazione da compagine di "teste matte" abituate a pensare solo per sé a una famiglia dove ci si sostiene e all'occorrenza ci si sopporta è una delle chiavi del successo di questi romanzi polizieschi, ispirati alla serie dell'“87º Distretto” di Ed McBain e approdati con successo anche in tv» (Severino Colombo, «Corriere della Sera», link).
Sta arrivando la primavera, con i suoi colori, i suoi profumi e le sue luci; ed è proprio in una splendida mattina di primavera, con la città illuminata da una luce perfetta, che viene ritrovato il cadavere di un uomo. È Savio Niola, proprietario di un chiosco dei fiori; per la vista non è un bello spettacolo, chi l'ha ucciso si è accanito non solo sul suo corpo, ma anche su tutto ciò che aveva intorno.
La squadra del vicequestore Palma si mette subito al lavoro, con la vicecommissaria Martini che sostituisce Pisanelli, reduce da una grave malattia. «All’interno dell’indagine, come al solito, i Bastardi di Pizzofalcone avranno modo di specchiare se stessi e la propria vita» (Maurizio de Giovanni).
Le ipotesi emergono pian piano. Niola, settantaquattro anni, aveva avuto un momento di celebrità per essersi esposto contro il racket. Era nel mirino dei clan? O a ucciderlo è stato il giovane che ospitava in casa e con cui lo hanno sentito litigare?
Ancora una volta de Giovanni attrae il lettore con una vicenda in cui si intrecciano violenza, mistero e ironia.
Un caso difficile, delicato, e «la bravura dell’autore sta nella capacità di far passare anche altro […] In Fiori i temi che si muovono sottotraccia sono quelli della vita di quartiere, dei negozi che chiudono, dei luoghi che sono, tornano, diventano presìdi di legalità e socialità; dei giovani che non si arrendono a una crisi del presente che uccide i sogni di futuro» (Severino Colombo, «Corriere della Sera»).
In una mattina di dicembre il capitano del Chiwi, l’imponente yacht dell'imprenditore Ademaro Proietti, ha lanciato l'allarme: «Uomo in mare». È proprio il proprietario ad essere scomparso, non si è presentato a colazione, il letto della sua cabina è intatto. Quando il mare di Ostia restituisce il cadavere di Ademaro, la prima ipotesi è che l’uomo sia annegato in seguito a una disgrazia. Eppure c’è qualcosa che non torna, un piccolo indizio che potrebbe richiedere per l’episodio una spiegazione diversa.
Ad indagare viene mandato il magistrato melomane Manrico Spinori, primo personaggio seriale nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo. Insieme a lui «riecco il team delle collaboratrici del pm, Deborah Cianchetti, Gavina Orru e Sandra Vitale. Per fortuna: era bastato un romanzo per farci venire voglia di ritrovarle» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa», link).
Sullo yacht, che tornava da Ponza, c'erano sette persone: il capitano, un marinaio, lo scomparso i suoi tre figli, il genero. Il corpo del palazzinaro non è ancora corroso dal mare né deturpato dai gabbiani. Ha però una sospetta lesione alla testa. Da qui parte un «giallo d'atmosfera, nella migliore tradizione del genere» che, secondo Maurizio Crosetti, si trasforma in un «giallo psicologico, dove il garbuglio di possibili moventi rivela tutta la sporcizia cacciata sotto il tappeto per decenni, comprese le turpi origini della fortuna del palazzinaro ucciso, il cui padre se la faceva con i nazisti» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica»).
De Cataldo «non si limita a regalare al lettore un giallo impeccabile per meccanica, scrittura e descrizione d'ambienti, un mondo romano altoborghese ma sostanzialmente cafone. Sommessamente, com'è nello stile suo e del suo pm, lancia frecce sottili ma per questo ancora più acuminate contro l'horror che ci circonda, la violenza verbale e la miseria intellettuale dei social, il giustizialismo isterico, i processi celebrati dai media invece che nei tribunali, la volgarità di modi e mode. Rivendicare il valore e magari pure la bellezza delle infinite tonalità di grigio in un mondo che vede solo il bianco e il nero non è poco. L'understatement, l'ironia, la signorilità diventano allora una forma di resistenza al Grande Chiasso che ci assedia, un argine precario ma prezioso alle colate di guano che tracimano ovunque, un piccolo spazio personale di sopravvivenza nella gara a chi urla più forte, e generalmente delle sciocchezze. Come quando Spinori si chiude nel suo studio, indossa un vecchio kimono e si abbandona alla bellezza di un'opera lirica» (Alberto Mattioli, «tuttolibri – La Stampa»).
L’indagine deve essere condotta con prudenza. Ademaro era un potente imprenditore, incensurato e con amicizie politiche e anche l'avvocato di famiglia è una donna influente, presente nei media. Stavolta nemmeno l’opera lirica, che da sempre lo ispira nella soluzione dei casi, sembra venire in soccorso a Spinori: «Per lui la morte è sempre, soprattutto nel caso dei delitti, uno spreco ingiustificabile. Gli omicidi spesso sono commessi in modo stupido per delle ragioni trascurabili, anche se possono apparire profonde e urgenti a chi commette il delitto, ma costituiscono un'autentica offesa al creato" [...] Le sue qualità migliori sono la tenacia, la pazienza e l'ironia. Con l'esperienza s'è convinto che c'è più autenticità, sincerità e verità nelle passioni rappresentate sul palcoscenico che in quelle urlate nella vita reale, che nascondo solo la banalità del male» (Giancarlo de Cataldo, intervistato da Francesco Mannoni «Il Mattino»).
Con Un cuore sleale, già in via di traduzione in Francia per Métailié, De Cataldo ha creato una storia intensa e coinvolgente ambientata in una Roma fredda e umida in cui Spinori si ritrova solo: una condizione troppo malinconica anche per un appassionato del melodramma come lui. Ma ideale per concentrarsi su un mistero che pare un autentico «giallo della camera chiusa».
Nel nuovo romanzo di Nesbø protagonisti sono due fratelli, Roy e Carl. Roy vive da solo, da anni, in un paese della Norvegia, nella casa di famiglia; gestisce una stazione di servizio, è un uomo taciturno ma capace nel suo mestiere. Carl, il fratello adorato, sempre protetto, presente in tutti i suoi ricordi, se ne è andato quindici anni prima. Ora è inaspettatamente tornato con il grandioso progetto di costruire un hotel e trasformare il paese in una località turistica.
Il suo arrivo però risveglia ricordi, rancori, sospetti e invidia; riemerge un segreto di famiglia che giaceva nascosto nell'animo di entrambi. Roy si trova di nuovo a doverlo difendere dall’ostilità e dai sospetti degli altri, deciso a non far riaffiorare i fantasmi del passato.
Non c’è l’amato Harry Hole dunque, ma il maestro del crime scandinavo ha dato vita a un thriller sulle menzogne, i segreti, i tradimenti nascosti dietro la rassicurante facciata della vita familiare. Per Stephen King è animato da «una tensione fortissima ed è davvero originale. Un libro speciale da tutti i punti di vista».
In un’appassionata recensione su «Robinson – la Repubblica», Claudia Morgoglione descrive Il fratello come «una storia libera da tentazioni politiche e sociali, che per la sua potenza narrativa appassionerà sicuramente i nesbiani duri e puri […] Qui le cose sono diverse. Perfino nel dipanarsi della violenza: lenta, lentissima, in apparenza assente per lunghi tratti del racconto. Ed è per questo che II fratello conquisterà anche chi nesbiano non lo è mai stato: meno stilemi di genere, più viaggio al termine di una notte piena di incubi».
Come ha raccontato lo stesso Nesbø a «The Independent» (link) attraverso questo romanzo, l’autore ha fatto i conti col proprio passato, con la forza dei legami tra fratelli, con l’insidia dei segreti trasmessi da una generazione all’altra. Scrivere storie è il suo modo per affrontare dubbi e fantasmi, trasformando il passato in qualcosa di nuovo.
«Non è stato facile ricominciare dopo L'Arminuta. Non ritrovavo il silenzio dentro di me, non il vuoto doloroso da cui nasce la scrittura. A ogni tentativo mi ritiravo frustrata, insoddisfatta. Poi la mia tiroide si è ammalata di un piccolo tumore e l'ho dovuta togliere». Con queste parole Donatella Di Pietrantonio apre la sua toccante presentazione di Borgo Sud a «tuttolibri – La Stampa». Ma nel momento più difficile, nella sua stanza dell’ospedale, «Adriana ha invaso la scena con la sua energia […] Illuminava di nuovo le pagine, le attraversava come un vento. Mi portava nel suo matrimonio, e in quello della sorella».
Adriana irrompe sempre nella vita di sua sorella con la forza di una rivelazione. Sono state bambine riottose e complici, figlie di nessuna madre. Ora sono donne cariche di slanci e di sbagli, di delusioni e possibilità, con un'eredità di parole non dette e attenzioni intermittenti.
Donatella Di Pietrantonio ci regala un romanzo teso e intimo, intenso a ogni pagina, capace di tenere insieme emozione e profondità di sguardo. Nato dalle «voci delle due sorelle che non si erano mai spente dentro di me, nei lunghi mesi di tentativi ed errori. All'improvviso avevo convocato accanto a loro un personaggio maschile inaspettato. Non potevo prevedere in quel momento quanto mi sarebbe diventato caro, Piero. Sono rimasta in ascolto. Mi sentivo come Geppetto davanti al suo Pinocchio sgrossato dal legno. Era quell’attimo benedetto in cui il personaggio è appena venuto al mondo e non sa quale strada prendere».
Di seguito alcuni estratti dell’eccezionale rassegna stampa di Borgo Sud:
«Chi ha già letto L'Arminuta, di Donatella Di Pietrantonio, sarà felice di ritrovare "sòreta", Adriana, la sorella minore, "come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia": la resistenza al dolore, la salvezza della complicità. Chi invece inizia il viaggio da questo nuovo e totalmente autonomo romanzo, resterà avvinghiato a due donne piene di altre delusioni e altre speranze, che portano addosso il peso, l'odio e l'amore per il borgo d'Abruzzo che le ha cresciute disadorne e le ha spinte ad andarsene. Una per studiare, per guadagnarsi un'altra possibilità, l'altra per andare, per sentire la vita, per scappare, per amare […] Adriana viene maledetta dalla madre, una vera maledizione arcaica, con il seno avvizzito tirato fuori dall'abito e puntato contro, una maledizione che la madre dirà poi di non saper levare, alzando le spalle come per sminuire la violenza totale e primitiva di quel gesto. "Se sòreta non cambia coccia fa una brutta fine". Una madre incapace di curare i vivi e due sorelle incapaci di perdonarla, ma anche di fare a meno di lei che ripulisce i peperoni dalla pelle e dai semi, e che guarda arrivare le sue figlie con il coltello a mezz'aria e non dice nulla. In questa triade femminile potentissima entra la scrittura intima e rude di Donatella Di Pietrantonio, capace di scavare fino a dove è più difficile giungere senza ferirsi».
Annalena Benini, «Il Foglio»
«… Ma la professoressa si trattiene e sceglie il silenzio. S'infila la sua giacca mentre resta colpita dalla tenerezza della giovinezza che non merita di essere esposta a quella verità crudele. E se la sorte invece risparmiasse i loro sogni? Il carattere limpidamente tragico della scrittura e della struttura narrativa di Donatella Di Pietrantonio trova in questa scena la sua cifra più propria: sapere che la vita porta con sé una atrocità irredimibile non significa cedere a questa atrocità. È la lezione della più grande letteratura italiana del Novecento: da Elsa Morante a Primo Levi. Borgo Sud riflette questa temporalità pienamente tragica».
Massimo Recalcati, «la Repubblica»
«Uno stile asciutto, che ben scava nelle anime […] Una sorellanza e un'orfananza capaci di superare le contrarietà. Perché, confessa l'Arminuta, "da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate". Una salvezza faticata, in questa intensa "storia di disgrazie e miracoli, morti e sopravvivenze: la storia disadorna della nostra famiglia", attorno alla quale si muovono però anche altri personaggi che l'autrice tratteggia con tenerezza e finezza: da Piero a Isolina, mamma di Rafael; all'amico Vittorio; ai pescatori di Borgo Sud. E a quel paesaggio a sua volta personaggio».
Ermanno Paccagnini, «la Lettura – Corriere della Sera»
«Raccontato in prima persona da una donna timida, austera ma ostinata che ha il suo doppio nella sorella, Adriana, esuberante e sfrenata, Borgo Sud è un piccolo Vangelo. Nel quale tutti i personaggi sono insieme antichi e giovani, creature di terra affacciate sul mare arduo dei pescatori, artigliati da famiglie in cui non ci si riesce ad amare in modo semplice. Di Pietrantonio, nata nella provincia di Teramo, è una delle più importanti romanziere italiane di questi anni, che ha costruito la sua strada di scrittore con tenacia e senza errori. Dall'orrore del terremoto fino a qui, dove tutto, continuamente, si spezza. La sua scrittura rocciosa, che si avvita con perfezione alle storie, implacabili, non può che rimandare al suo conterraneo, Ignazio Silone».
Elena Stancanelli, «D – la Repubblica»
«Ritroviamo molte cose simili anche in Borgo Sud, il nuovo romanzo pubblicato in questi giorni da Einaudi con cui la Di Pietrantonio torna nelle librerie riportandoci anni dopo in quei posti, anche se diversi, e la cosa bella tra le tante in cui vi imbatterete in questo autentico gioiello di scrittura, è che questo libro può essere letto indipendentemente dall’altro, come un libro a sé. Al panorama verdeggiante di colline e montagne si aggiunge il mare, che però qui, rispetto al primo libro, “è solo una sfumatura del nero che bagna la sabbia e si ritrae”. Non importa vederlo sempre o descriverlo meglio perché – come dice la protagonista – si sa da sempre “che sta lì”».
Giuseppe Fantasia, «Huffington Post», link