Spatriati
Claudia entra nella vita di Francesco in una mattina di sole, nell'atrio della scuola: è una folgorazione, la nascita di un desiderio tutto nuovo, che è soprattutto desiderio di vita. Cresceranno insieme,...
Che facesse il dirigente editoriale, il critico letterario, lo scrittore, il traduttore o l’organizzatore culturale non cambiava la sostanza delle cose: Ernesto Ferrero aveva un suo quid, una sua personalità che attraversava i ruoli rimanendo sempre ben riconoscibile, inconfondibile. Gli «ingredienti» erano la gentilezza e l’eleganza combinate però (a dispetto dei pregiudizi sui torinesi) con la franchezza e la nettezza dei giudizi e delle posizioni; la prontezza dell’intelligenza con la disponibilità e la capacità di ascolto; il garbo e l’ironia anche nelle situazioni di stress.
Nella sua attività editoriale, dal 1963 al 1989 all’Einaudi, poi alla Bollati Boringhieri, alla Garzanti e alla Mondadori, ha sempre messo a proprio agio autori, colleghi e collaboratori cercando, secondo un’idea fissa del suo mentore Giulio Bollati, la «felicità» delle persone. E questo ne ha fatto una delle figure più amate dal mondo letterario italiano. Dagli infiniti incontri di questa lunga esperienza professionale restano appassionate memorie e indimenticabili ritratti in due libri, per l’appunto, molto felici: I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli 2005) e Album di famiglia (Einaudi 2022). La sua capacità di cogliere un modo di camminare, una parlata, un tic e di proiettarlo in un carattere, e di connettere il carattere ai pensieri e agli scritti dei suoi personaggi disegnati dal vero ne fa il nostro Sainte-Beuve.
Anche il suo acume critico, esercitato su autori come Gadda, Primo Levi e Italo Calvino, risulta corroborato dalla conoscenza diretta, dalla testimonianza, dalla capacità di racchiudere in icastiche formule descrittive/interpretative il nocciolo stilistico e umano degli scrittori più amati. Esempio eccellente ne è il recentissimo Italo, che rimarrà purtroppo il suo ultimo libro.
Come scrittore in proprio prendeva spunto dalla storia ma costruiva i suoi protagonisti con lo stesso calore letterario dei personaggi di finzione: dal Napoleone di N. al grande truffatore Edgar Laplante dell’Anno dell’Indiano (nato Cervo bianco), dal Salgari di Disegnare il vento al san Francesco di Francesco e il Sultano. Tutte parabole esistenziali straordinarie in affreschi d’epoca precisi e suggestivi.
Come direttore del Salone del libro dal 1998 al 2016 rimarrà nella storia di questo evento come sapiente organizzatore, ma verrà ricordato anche per la capacità di presenziare a tutti gli incontri più importanti e di pronunciare sempre le parole più appropriate per introdurli. Sembrava possedere soprannaturali doti di ubiquità perché avresti giurato di averlo sentito parlare un attimo prima a una tavola rotonda e già stava presentando un premio Nobel in un altro padiglione. Tanti discorsi che non avevano mai il peso dell’ufficialità e della retorica. Per lui che aveva studiato i gerghi del Quattrocento e che aveva tradotto Céline, la lingua parlata, immediata, creativa era il miglior antidoto contro qualsiasi enfasi e ben rappresentava il suo animo più profondo.
Alcuni anni fa, in occasione di un incontro con i lettori romani, scrissi le parole che seguono e che pubblico soltanto ora perché, da un’ora, ho saputo che Javier Marías è morto, nella sua Madrid. Non sapevo che stesse così male.
Preferisco pubblicare queste parole pensate con calma per lui piuttosto che improvvisare trascinato dall’emozione, dalla tristezza, dalla mancanza.
«Raccontare è quasi sempre un regalo», scrive Javier Marías nella prima pagina di Il tuo volto domani. E se ogni lettore prova a ripensare i libri letti e amati nel corso del tempo e lungo la propria vita non fatica a scoprire o a riconoscere la naturale verità di queste parole. Esistono scrittori a cui siamo grati per un libro o due, per una storia, per un personaggio, addirittura per un dialogo o una frase, o anche solo per una scena, che entra così a far parte del catalogo di quelle scene assolute – come le chiamava Stevenson – che si imprimono per sempre nella nostra memoria e che ci servono nel corso della vita per dar forma alle nostre esperienze, ai sentimenti, ai pensieri. Anche per questo si legge, non per trovare formule, ma per cercare forme. E con esse provare a fermare provvisoriamente l’indefinito che incontriamo sul nostro cammino.
Differente, e più raro, è il caso degli scrittori a cui siamo grati per aver creato un regno in cui, se certamente loro sono sovrani, noi lettori di sicuro non ci sentiamo sudditi ma cittadini. Voglio dire che in quel regno, sempre a intermittenza fra verità e immaginazione, noi non ci sentiamo in alcun modo costretti, ma ci ritroviamo. Ne condividiamo i luoghi e il tempo, le aperture fantastiche e il lato oscuro, le figure, le citazioni, le letture e perfino i tic, che riconosciamo come segnali di orientamento. In questi casi allora non si tratta di una singola storia, di un personaggio o di una scena assoluta, ma di un’opera, o meglio di un universo in movimento, di una «forma di durata», «quel luogo della mia eternità» – come scrive Marías – che ci convoca al proprio interno da ogni punto della sua sfera, sia che abbia la forma narrativa di un romanzo o di un racconto, di una poesia, di un saggio, di uno scherzo, o anche solo di un articolo di giornale o di una cronaca sportiva. Credo che Javier Marías appartenga a questo genere ultimo di scrittori. Certo, come sempre, li si può incontrare o disincontrare, ma se li si incontra allora sarà difficile preferire o rifiutare questo o quel libro, nel nostro caso Un cuore così bianco, Domani nella battaglia pensa a me, Nera schiena del tempo, L’uomo sentimentale, Vite scritte, Quand’ero mortale, (oggi aggiungo) Così ha inizio il male, Berta Isla, Tomás Nevinson. Piuttosto li si distinguerà come passaggi differenti di una stessa città, in cui avviene sempre, in mille forme diverse, uno stesso evento, un gioco che diventa anche il nostro gioco. «So che nel momento di scrivere o raccontare storie e inventare personaggi – dice Marías – ho saputo o ho riconosciuto oppure ho pensato cose che solo nella scrittura si possono sapere o riconoscere o pensare. A volte solo nella finzione, ecco, nella scrittura di romanzi e racconti. Spesso mi torna presente l’esistenza di qualcosa che si tende a dimenticare e che anticamente si chiamò “pensiero letterario”, differente da qualsiasi altro, da quello scientifico e filosofico, da quello logico e matematico e perfino da quello religioso e politico». Marías spiega che non si tratta di un pensiero sulla letteratura, ma di un modo di pensare letterariamente il mondo, un pensiero difficile da definire perché può contraddirsi e non è soggetto ad alcuna dimostrazione o verifica, può sembrare arbitrario, capriccioso e perfino ridicolo. È una forma di «riconoscimento», che ci fa dire: ecco, è così. Insomma, «è un modo di sapere che si sa ciò che non si sapeva di sapere».
La letteratura che interessa a Javier Marías, come scrittore ma anche come lettore, è quella che, senza proporsi di spiegarlo, «racconta il mistero». Se il nostro sentire accoglie un’idea del mondo e dell’esperienza fatta sia da ciò che è accaduto che da ciò che sarebbe potuto accadere, sia da ciò che è reale e sia da ciò che è, più profondamente, vero, sia dall’immaginazione che dal ragionamento, non avremo trovato solo un libro o qualche storia, ma un regno in cui, senza consolazione alcuna, potremo riconoscerci.
Ernesto Franco, Cittadino Onorario del Reino de Redonda
Venerdì 27 maggio, in diretta dal Palazzo del Bo’ di Padova, è stata annunciata la cinquina finalista della 60esima edizione del Premio Campiello. Fra i titoli, La foglia di fico di Antonio Pascale, uscito il 2 novembre 2021 nei Supercoralli.
«Non è un libro sentimentale, ma è un libro che possiede un sentimento, dalla prima pagina all'ultima: il sentimento per le cose della vita. Si sorride, si ride di certe figuracce o di certe teorie casertano-filosofiche, si ringrazia per l'assenza di trama e la ricchezza di letteratura, ci si ripromette di andare al più presto in una pineta a piedi nudi e di portarci i bambini finché sono bambini, finché la vita non prenderà un'altra piega».
Annalena Benini, «Il Foglio»
«La foglia di fico è un libro di piacevolissima lettura che racconta piccole, sofferte, ironiche vicende dentro i grandi e gravi problemi del nostro Paese e del nostro tempo».
Domenico Starnone, «Corriere della Sera»
«Il personaggio che mi colpisce di più del libro è quello del padre. Una figura gigantesca. In genere tentiamo di distaccarci dai padri di non occuparci delle loro stesse cose. Invece nel romanzo l'idea di formazione, la trasmissione di sapere, passa attraverso lui».
Francesco Piccolo, «la Repubblica»
«Questo libro, già nell'ambivalenza del titolo, è il referto narrativo di una esperienza di ascolto della natura. Lo compie Antonio – il protagonista o l'autore che sia: vale la pena di intrupparsi nell'autofiction? – attraverso dieci capitoli splendidamente aperti dalle illustrazioni da codice miniato di Stefano Faravelli, che riescono a fare di una raccolta di brani un romanzo: un racconto omogeneo che Pascale governa con una scrittura divagante, frammentata, digressiva, tessendo una vera e propria ragnatela di microazioni e macroazione al centro della quale ci sono temi come l'amore, le scelte, la libertà, la felicità, il dolore, l'abbandono, la solitudine, la vergogna, l'inadeguatezza, la vita e la morte».
Generoso Picone, «Il Mattino»
«Leggendo quest'ultima felicissima (nel senso etimologico di feconda) autofiction polifonica di Pascale si può pensare alle atmosfere di Virgilio, vuoi per le Georgiche vuoi, soprattutto, per quel primo viaggio all'inferno e ritorno, quello che permette, se non di dipanare, almeno di avere chiari i fili in cui l'essere umano è costretto e poi imparare a conviverci».
Silvia Veroli, «il manifesto»
Il vincitore del Premio Campiello 2022 sarà proclamato sabato 3 settembre al teatro la Fenice di Venezia, selezionato dalla votazione della Giuria dei Trecento Lettori anonimi. Ecco gli altri candidati:
Fabio Bacà con Nova (Adelphi)
Daniela Ranieri con Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie),
Elena Stancanelli con Il tuffatore (La nave di Teseo),
Bernardo Zannoni con I miei stupidi intenti (Sellerio).
Il 31 marzo, dalla Camera di commercio di Roma, sono stati annunciati i dodici libri candidati alla LXXVI edizione del Premio Strega.
Due i titoli Einaudi presenti:
Spatriati di Mario Desiati, presentato da Alessandro Piperno: «Lasciatemi dire, anzitutto, che sono pochi gli scrittori italiani contemporanei che abbiano saputo imprimere al proprio itinerario letterario una coerenza così implacabile. Dai tempi lontani Desiati ha saputo restare fedele al suo mondo con un’ostinazione sorprendente. Ecco, a mio giudizio, Spatriati è il suo libro migliore, il fiore della maturità, quello in cui i temi, le atmosfere e lo stile raggiungono una sintonia incantevole» (qui il testo completo).
Niente di vero di Veronica Raimo, presentato da Domenico Procacci: «Sono un Amico della domenica da diversi anni ma è la prima volta che decido di presentare un romanzo al Premio Strega. Lo faccio perché me ne sono innamorato prima da lettore e poi da produttore. Veronica Raimo ha un talento prezioso, scrive di cose serie, profonde, talvolta sconcertanti, con uno stile ironico e brillante. Niente di vero è uno spaccato tagliente di una famiglia italiana che ci somiglia, in cui la voce narrante smonta continuamente gli aspetti più canonici dello stare insieme per diritto di sangue, così come demolisce ogni retorica consolatoria, con una scrittura libera, spudorata e irresistibile» (qui il testo completo).
Gli altri candidati:
Marco Amerighi, Randagi (Bollati Boringhieri)
Fabio Bacà, Nova (Adelphi)
Alessandro Bertante, Mordi e fuggi (Baldini+Castoldi)
Alessandra Carati, E poi saremo salvi (Mondadori)
Veronica Galletta, Nina sull’argine (minimum fax)
Jana Karšaiová, Divorzio di velluto (Feltrinelli)
Marino Magliani, Il cannocchiale del tenente Dumont (L’Orma)
Davide Orecchio, Storia aperta (Bompiani)
Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij (Rizzoli)
Daniela Ranieri, Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie)
Dopo Io sono il castigo e Un cuore sleale, esce la terza indagine del magistrato melomane Manrico Spinori, il primo protagonista seriale di Giancarlo De Cataldo: «Un personaggio del tutto inedito disegnato dal Maestro De Cataldo, autore che potremmo definire dalla penna d'oro […] conte in virtù delle ascendenze aristocratiche, è sicuramente uno dei più riusciti» (Gabriella Genisi, «tuttolibri – La Stampa»).
In questa vicenda, una frase buttata lí da un pentito, all’apparenza in modo casuale, produce un piccolo terremoto in procura. Perché a dar retta a er Farina – spacciatore con contatti importanti nella malavita organizzata – dieci anni prima il dottor Spinori non aveva fatto un buon lavoro occupandosi dell’assassinio di Veronica, escort transessuale d’alto bordo. Del delitto era stato accusato un uomo che, a causa dello scandalo, si era tolto la vita.
«Attraverso un'indagine raccontata con i toni garbati della commedia italiana il lettore viene condotto nella zona grigia del mondo di mezzo, delle connivenze tra mafia e colletti bianchi ma soprattutto, in un unicum per la letteratura poliziesca, si renderà conto del lavoro di squadra che coinvolge magistratura, polizia, carabinieri e guardia finanza, oltre che dell'importanza dei dettagli. Perfino di un vassoio di cannoli siciliani» (Gabriella Genisi, «tuttolibri – La Stampa»).
Nonostante le prove schiaccianti, dopo le parole di er Farina, tutto torna in discussione. Un colpo al cuore per un magistrato attento come Manrico, che diventa ombroso e, nel generale scetticismo, riapre le indagini, scoprendo un intrigo di cui nessuno poteva sospettare. Questa volta avrà bisogno della sua squadra, un affiatato gruppo di formidabili investigatrici che, per l’occasione, registra anche un nuovo ingresso.
«Al solito De Cataldo sfoggia un solidissimo mestiere. I dialoghi sempre credibili e pieni di sprazzi gergali sono il frutto dell'esperienza di uno sceneggiatore consumato. La struttura è colma di informazioni potenti e concrete sui meccanismi investigativi e giudiziari. I legami col melodramma, precisi e sorprendenti, ci rammentano che non esiste alcuna delittuosa situazione che non sia stata evocata e narrata da un'opera. E il romanzo brilla di un bel timbro da giallo all'italiana, definito da una relazione stretta con la vivida realtà territoriale e dalla presenza delle maschere più riconoscibili e significative della nostra eterna commedia dell'arte. Applausi» (Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Klara e il Sole è il nuovo romanzo di Kazuo Ishiguro, il primo dopo il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura. «Dopo Quel che resta del giorno e Non lasciarmi, Ishiguro firma un altro capolavoro (parola rischiosa, ma stavolta è il caso di sbilanciarsi). Opera visionaria ed elegiaca di bellissimo spessore […] Il libro conquista per limpidezza dello stile, profondità delle implicazioni esistenziali e stratificazione dei livelli narrativi. Di volta in volta il grande gioco di Ishiguro si esprime in cenni, trasparenze e piccole dosi» (Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Seduta in vetrina sotto i raggi gentili del Sole, Klara osserva il mondo di fuori e aspetta di essere acquistata e portata a casa. Promette di dedicare tutti i suoi straordinari talenti di androide B2 al piccolo amico che la sceglierà. Gli terrà compagnia, lo proteggerà dalla malattia e dalla tristezza, e affronterà per lui l’insidia piú grande: imparare tutte le mille stanze del suo cuore umano.
Josie è una bambina fragile, pallida, insicura nel camminare e afflitta da un male oscuro; la sceglie, è Lei quella che vuole e la porta nella sua casa luminosa, dove si vede il Sole che tramonta. E quando la malattia di Josie colpisce più duramente, Klara sa che cosa fare: deve trovare colui da cui ogni nutrimento discende e intercedere per la sua protetta, anche a costo di qualche sacrificio; deve impegnarcisi anima e corpo, come se anima e corpo avesse.
«In effetti il libro parla soprattutto di emozioni e relazioni. S'interroga sui rapporti e i sentimenti in un contesto modificato dalla scienza e dalla tecnologia. Si può sostituire una persona che muore per evitarci il dolore della perdita? Un individuo è unico negli algoritmi e in altri dati? Se lo è, in che modo questo trasformerà la nostra affettività? Come cambierà l'amore, qualora potessimo trasferire un essere su una banca dati? Sono le questioni che ho voluto porre attraverso gli occhi di Klara e della sua innocenza» (Kazuo Ishiguro intervistato da Leonetta Bentivoglio, «la Repubblica»).
Il nuovo romanzo di Ishiguro «ha una sua specifica qualità geologica: si parte da uno strato superficiale, vestito da futuribile, e si scava verso un centro antico quanto il pensiero dell'uomo su se stesso: che cosa, in ultimo, ci rende umani? Ishiguro non lo dice mai forte, però leggendolo lo si intuisce un po' ovunque: amare ed essere amati» (Laura Pezzino, «tuttolibri – La Stampa»).
Dal 26 aprile debutta «beginners», il nuovo appuntamento in diretta su Facebook e sul canale YouTube della Casa editrice, ogni lunedì alle 18.30. I nuovi esordienti Einaudi, presentati dall'editor che ha lavorato con loro sin dalle prime bozze, dialogheranno con autori e autrici già affermati che hanno particolarmente apprezzato il libro.
Un progetto per costruire e raccontare il futuro della Casa editrice, un'iniziativa dedicata alle nuove voci del nostro catalogo.
«Proprio chi ha una storia come la nostra è più votato a pensare al domani, a costruire il futuro.
E cos'è il futuro di una casa editrice se non i propri esordienti, chi comincia la propria carriera, chi inizia?
È per loro, e per il nostro futuro, che abbiamo ideato “beginners”».
Ernesto Franco, direttore editoriale
Ecco i primi «beginners»:
- Lunedì 26 aprile Paolo Milone (L’arte di legare le persone) con Marco Missiroli e Paola Gallo.
- Lunedì 3 maggio (Il venditore di rose) Dario Sardelli con Serena Dandini e Francesco Colombo.
- A seguire: Stefano De Bellis ed Edgardo Fiorillo, Martina Merletti e Nicoletta Verna…
Per tutti gli aggiornamenti consulta la pagina Facebook Einaudi
Dal 12 gennaio Orwell è entrato a far parte del catalogo Einaudi con due dei più importanti classici moderni della letteratura: La fattoria degli animali e 1984. La traduzione è di Marco Rossari e le copertine di Noma Bar.
«[…] E facendo un’ulteriore riflessione voglio azzardarmi a predire una nuova peculiare fortuna per la Fattoria. Recenti studi sul nostro genoma hanno dimostrato quanto abbiamo in comune con gli altri primati e mammiferi, e in particolare con i maiali (dai quali possiamo farci trapiantare pelle e organi). Ai tempi di Orwell l’idea dei diritti animali, per non parlare di quella di una liberazione animale, sarebbe sembrata sciocca o piuttosto fantasiosa, ma oggi fa parte della nostra concezione dei diritti in continua evoluzione, e appoggiandosi a molte intriganti scoperte scientifiche è una di quelle idee che porta avanti il cambiamento. Anche noi siamo «animali», e il supposto dominio sulle altre creature che ci assegna il libro della Genesi appare messo sempre piú in crisi. Anche nell’enorme dibattito che ci aspetta nel futuro, questo piccolo libro si guadagnerà probabilmente una nicchia allegorica.
Tutti gli esempi che ho portato sono connotati storicamente, ma sono certo che la Fattoria possieda anche una cifra senza tempo, quasi trascendentale».
Dalla postfazione de La Fattoria degli animali a cura di Christopher Hitchens
«C’è una fotografia, scattata intorno al 1946 a Islington, che ritrae Orwell e suo figlio adottivo, Richard Horatio Blair. Il piccolo, che all’epoca doveva avere un paio d’anni, è raggiante, risplende di un’indifesa meraviglia […] Non è difficile ipotizzare che Orwell in 1984 abbia immaginato un possibile futuro per la generazione di suo figlio, un futuro che non gli augurava ma da cui non poteva evitare di metterlo in guardia. Ma l’idea di predire un futuro inevitabile lo metteva a disagio, e restava convinto della capacità delle persone comuni di cambiare qualsiasi situazione, se solo lo avessero voluto. Ed è a quel sorriso di bambino che si deve tornare; ingenuo e radioso, frutto di una fiducia incondizionata nel fatto che il mondo, alla fine, sia buono, e che l’umana decenza, come l’amore di un genitore, debba essere sempre data per scontata. Una fiducia tanto pura che possiamo quasi immaginarci Orwell, e persino noi stessi, magari anche soltanto per un istante, giurare di fare qualsiasi cosa vada fatta per evitare che possa mai essere tradita».
Dalla postfazione di 1984 a cura di Thomas Pynchon
Dopo i primi riconoscimenti di Isella e Fortini, fu Mengaldo a consacrare Franco Loi, dandogli la strategica ultima posizione nella sua famosa antologia Poeti italiani del Novecento (1978) e presentandolo senza mezzi termini come «la personalità poetica più potente degli ultimi anni».
A Stròlegh (1974), che era il libro più importante sul quale Mengaldo basava il suo giudizio, seguirono rapidamente Teater (1978) e L’aria (1981), un trittico di libri Einaudi che avrebbero confermato il valore del poeta milanese e restano tuttora la testimonianza di una fase particolarmente felice della poesia di Loi.
Nella tradizione di Carlo Porta e Delio Tessa, Loi aveva ripreso a scrivere poesie in milanese, ma il suo dialetto si differenziava da quello dei suoi predecessori, era pieno di termini spuri o spesso inventati. Se non per la lingua, Loi si ricollegava al Porta per la teatralità dei suoi versi, per le voci differenti che attraversavano i suoi poemetti e le sue poesie. Salvo restituire spazio a un io lirico, spesso trasognato, nel corso degli anni.
La vena narrativa dei suoi versi era l’elaborazione poetica di un’arte affabulatoria naturale, orale, capace di intrattenere e coinvolgere sia un pubblico di amici sia un uditorio più vasto nonostante una voce flebile e di registro acuto. La sua disposizione alla conversazione e all’amicizia ha saputo diventare negli anni anche un prezioso apporto a tante figure di più giovani poeti che a lui guardavano come maestro e punto di riferimento insostituibile.
La sua poesia resterà, ma mancherà a molti la sua simpatia e la sua umanità.
Nel corso di circa mezzo secolo Franco Loi ha pubblicato una trentina di libri. Tra i più recenti: Amur del temp (Crocetti 1999, 2018); L’aria de la memoria (Einaudi 2005), un’auto-antologia che raccoglie il meglio di tutta la sua produzione; I niül (cioè «le nuvole», Interlinea 2012).
Uno degli effetti dello straordinario successo de La regina degli scacchi, la miniserie prodotta da Netflix e tratta dall’omonimo romanzo di Walter Tevis, è stato quello di riaccendere la passione del grande pubblico per il nobile gioco di strategia.
Il 27 novembre l’NBC News scrive che è diventato «improvvisamente uno dei giochi in cima alle liste dei desideri di queste festività natalizie», aggiungendo che «i rivenditori stanno lottando per averlo in magazzino» (link).
Negli Stati Uniti tutta questa attenzione sta riportando in auge anche molti libri le cui storie ruotano intorno agli scacchi. Agli orfani della serie proponiamo di seguito alcuni titoli presenti nel catalogo Einaudi.
Il più recente è Il gioco degli dèi di Paolo Maurensig, uscito nel 2019 nei Supercoralli. È la storia di Malik Mir Sultan Khan, lo scacchista che ha battuto Capablanca, l’uomo misterioso di cui parla tutta New York, un enigma per chiunque lo incontri. Per Cristina Taglietti l’autore «restituisce verità storica allo “scacchista con il turbante”, un personaggio che sembra uscito dalle pagine di Kipling. La breve carriera del giovane servo rispecchia la tentata rivolta dell’India all’imperialismo britannico. Nel gioco degli scacchi lo scrittore cela anche il gioco del mondo» («Sette – Corriere della Sera»).
Maurensig ci regala il ritratto sorprendente di un personaggio che ribalta continuamente l’immagine del campione, e i nostri pregiudizi occidentali. «Si potrebbe azzardare che ha il passo del classico […] Il gioco degli dèi scorre sospeso tra romanzo di formazione e avventura, con un incedere tra Dickens e il Sandokan di Salgari» (Crocifisso Dentello, «il Fatto Quotidiano»).
Nel 2015 è stato pubblicato nei Tascabili Novella degli scacchi, «il miglior racconto di Stefan Zweig» (Daniele Del Giudice). Un classico scritto pochi mesi prima che l’autore si suicidasse nella città brasiliana di Petrópolis. È un’inquietante favola, «un piccolo contributo – come sostiene con dolorosa ironia il protagonista – a questa nostra epoca così grande e soave».
In queste pagine la guerra tra cultura e ignoranza, intelligenza e meschinità si consuma tra le pedine di una scacchiera. Un racconto che, alle porte della Seconda guerra mondiale, mostra un mondo che sta scivolando sempre più in basso.
Per Zweig gli scacchi sono l’unico gioco «fra tutti quelli ideati dall’uomo che sovranamente si sottrae alla tirannia del caso e consegna la palma della vittoria esclusivamente all’intelletto o, meglio, a una certa forma di talento intellettuale. Definendo gli scacchi un gioco, non ci si rende però già colpevoli di un’offensiva limitazione?» (p. 14)
Sempre nel 2015 Stile Libero ha pubblicato L’uomo degli scacchi di Peter May. È l'episodio conclusivo, dopo L'isola dei cacciatori di uccelli e L'uomo di Lewis, del trittico poliziesco che in Inghilterra ha venduto oltre un milione di copie.
Qui il lettore incontrerà «una scacchiera gigante, ogni casella delle dimensioni di sessanta centimetri quadrati. I pezzi di Whistler riempivano la scacchiera, fieri guerrieri vichinghi compiaciuti, nel loro campo di battaglia bianco e nero, con i movimenti sincronizzati alla partita che si stava giocando nella chiesa, ogni mossa trasmessa ai volontari che muovevano i pezzi con dei walkie-talkie» (p. 307). E i pezzi saranno molto importanti per lo sviluppo della trama.
«L’uomo degli scacchi offre un’esperienza quasi viscerale: camminiamo anche noi, con Fin, sulle scogliere spazzate dal vento e accanto ai laghi prosciugati. Per i lettori sarà dura accomiatarsi da questo personaggio, ma bisogna rendere merito a Peter May di aver tenuto fede al progetto di una perfetta trilogia».
«The Independent»
Scacco a Dio è una raccolta di racconti firmata da Roberto Vecchioni nel 2011. I personaggi di queste storie sono decisamente speciali: hanno sfidato Dio inventandosi un destino diverso da quello che sembrava già scritto. Grandi uomini che tutti conosciamo, si direbbe. Eppure questa parte della loro storia nessuno ce l'aveva raccontata. Così scopriamo, nel racconto che ha dato il titolo al libro, che il campione del mondo di scacchi Capablanca non ha perso il suo titolo come credevamo…
«I campioni di scacchi o si odiano tra loro o non si considerano affatto. Per Alekhine e Capablanca non era così. Non si poteva forse parlare di amicizia, ma di certo si rispettavano e si trovavano simpatici, probabilmente proprio perché così diversi, cosi all’opposto. Capablanca giocava a scacchi come fosse nato a far quello e basta: ce l’aveva dentro come un linguaggio, come un modo di sentire, e di conseguenza non si affannava più di tanto a studiare partite altrui, soluzioni inusitate, perché era certo che al momento della verità il suo istinto lo avrebbe salvato davanti a qualsiasi mossa imprevista. Né si arrovellava in attacchi all’arma bianca o in difese aggrovigliate; amava poco la forza, molto più l’eleganza, la raffinatezza. Era convinto che i problemi più complessi avessero tutti una soluzione elementare e davanti agli altri era solito dire: “Voi analizzate, io so”. Uno spaccone, pigro, indolente, amante del bel mondo, delle comodità e del piacere in ogni forma, conquistatore nato, impenitente donnaiolo. Roberto Vecchioni emoziona con la sua affabulazione rapinosa e lieve, con le sue storie un po’ sghembe capaci di cogliere e svelare, d’incanto, gli abissi dell’animo umano» (Scacco a Dio, pp. 102-3).