Giulio Einaudi editore

Pagine postume pubblicate in vita

Copertina del libro Pagine postume pubblicate in vita di Robert Musil
Pagine postume pubblicate in vita
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L'ultima opera e la quintessenza del magistero musiliano.

2004
L'Arcipelago Einaudi
pp. 154
€ 11,50
ISBN 9788806170158
Traduzione di

Il libro

«Il poeta di lingua tedesca non è da un pezzo sopravvissuto a se stesso?» si chiede Musil ironicamente sin dalla Nota introduttiva di queste Pagine postume pubblicate in vita. Pensava, l’autore dell’Uomo senza qualità, sia alla propria situazione di emigrato, sia, più in generale, alla crisi che investiva negli anni del dominio nazionalsocialista il mondo letterario tedesco. Ma proprio la rilettura oggi, settant’anni dopo, di questi racconti dimostra come essi fossero allora graffianti e carichi di attualità (non a caso il libro in Germania venne vietato) e oggi ancora ben vivi e vitali. Abbandonando la prospettiva del grande romanzo – che ormai, a metà degli anni Trenta, dubita di poter condurre a termine – Musil passa a strumenti di analisi inediti, indugia sulla descrizione della carta moschicida, sugli ospiti di una pensione romana, sui monumenti, su porte e portoni: e proprio attraverso lo studio di simili dettagli riesce, non di rado – basti pensare all’Isola delle scimmie, a Ridono i cavalli?, al Merlo – a cogliere l’essenziale.

«La carta moschicida Tangle-foot è lunga all’incirca trentasei centimetri e larga ventuno; è spalmata di una materia viscosa tossica e gialla, e proviene dal Canada. Se una mosca vi si posa – non per avidità ma per conformismo, perché ve ne sono già attaccate tante altre – resta presa dapprima per l’estrema falange ricurva di tutte le sue zampette. Sensazione lieve, inquietante, come quella che si proverebbe camminando nel buio a piedi nudi, e inciampando all’improvviso in qualcosa che altro non è ancora se non una resistenza indefinibile, morbida e calda, in cui fluisca già a poco a poco l’orrore di essere umana, di rivelarsi una mano messa lí chi sa come per artigliarci con le sue cinque dita sempre piú percepibili.
Poi le mosche si tendono tutte in uno sforzo massimo, come tabetici che vogliono nascondere il loro male o come vecchi militari tentennanti (le gambe un po’ arcuate, come quando si sta su una cresta aguzza). Si danno un contegno, chiamano a raccolta facoltà ed energie. Di lí a pochi secondi la risoluzione è presa, e incominciano come possono a districarsi frullando le ali. Questa frenetica manovra continua sinché lo sfinimento le costringe a interrompersi. Segue una breve pausa e poi un nuovo tentativo. Ma gli intervalli si fanno sempre piú lunghi. Stanno lí, e io sento il loro smarrimento. Dal basso salgono vapori che vanno alla testa. Allungano la lingua tastando tutt’intorno come un piccolo martello. Hanno il capo peloso e bruno, quasi ricavato da una noce di cocco: sembrano idoli negri in forma umana. Si piegano avanti e indietro sulle zampette invischiate, puntano le giunture e si irrigidiscono come chi tenta di smuovere a ogni costo un carico troppo pesante: piú tragiche degli operai nella loro fatica, piú vere di Laocoonte nell’espressione sportiva dello sforzo estremo. E poi viene il momento, sempre ugualmente strano, in cui l’esigenza immediata di un attimo trionfa di tutti i potenti istinti di conservazione. È l’istante in cui lo scalatore lascia volontariamente l’appiglio perché gli dolgono le dita, l’uomo sperduto nella neve vi si abbandona come un bambino, il fuggiasco braccato si ferma con i lombi in fuoco. Le mosche non hanno piú la forza di sollevarsi dal vischio, ricadono un poco e in quell’attimo sono interamente umane. Subito vengono afferrate in un altro punto; piú in alto, sulla zampa, o dietro, sull’addome, o all’estremità di un’ala».

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