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Il Regno di Op
«Mio figlio ha due anni e una cicatrice sul cuore.
Non è una metafora, mio figlio questa cicatrice ce
l'ha davvero. Sono tre punti disposti a triangolo. Su
quel triangolo, fino al giugno scorso, era appoggiato
il suo cvc. Cvc è una parola che le madri non dovrebbero
imparare mai. È una coda di plastica azzurra, cucita
sul petto dei bambini che devono fare chemioterapia.
A mio figlio questa codina blu è spuntata che
aveva compiuto due mesi da poco».
Paola Natalicchio, Il Regno di Op
Il libro
Quel che commuove, è prima di tutto l’intelligenza. Poi l’energia che accende ogni giorno, l’illogica allegria che può infilarsi anche nei momenti piú neri. Paola Natalicchio ci consegna il diario limpido e luminoso della sua lotta con il drago, raccontando una cosa semplice: l’ospedale è un posto dove si continua a vivere. A essere madri, a essere bambini. E dove si può guarire.
Quando stai per avere un figlio lo sai che ad aspettarti c’è l’uragano. Sai che alla meraviglia si mescolerà la fatica delle notti in bianco, dei pianti incomprensibili e del tempo che sparisce. Quello che non ti aspetti, mai, è che da un giorno all’altro l’uragano ti trascini nello stesso ospedale in cui tuo figlio è nato poche settimane prima. In un luogo cosí impronunciabile che devi inventartene un altro, di nome: Oncologia pediatrica, il Regno di Op.
Ma c’è un’altra cosa che non ti aspetti, e che scopri pian piano, una verità che ha il profumo dei pop-corn, i colori dei pennarelli, il suono di una canzone o di una ninnananna. Ed è che i bambini, anche quando sono malati, restano sempre soprattutto bambini.
La battaglia di Paola e di suo figlio si intreccia con quella di tante altre famiglie, di tanti bimbi di tutte le età, combattenti piccolissimi e invincibili, e con quella di chi nelle stanze del Grande Ospedale non è di passaggio: le infermiere, i portantini, i medici che «ogni giorno, come i pompieri, provano a spegnere il fuoco».
Ma la guerra finisce, prima o poi. E quando esci in piedi, da una guerra cosí, ti senti che la vuoi raccontare.
Ecco come nasce questa storia di solidarietà e resistenza, questa «maratona sui carboni ardenti» che Paola Natalicchio ci restituisce con una voce nitida e pungente, persino allegra, capace di scardinare il dolore per trasformarlo in coraggio. Perché «se parlarne significherà ottenere anche solo un minuto di attenzione in piú, ne sarà valsa la pena. Dare un nome alle cose e mantenere intatto il desiderio di nominarle. Vale sempre la pena».