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Il giudice meschino
Un magistrato indolente costretto a diventare eroe suo malgrado. Un vecchio padrino che parla come un oracolo e dal carcere orienta le indagini. Perché quelli che sembrano omicidi di 'ndrangheta forse non lo sono. Forse hanno a che fare addirittura con le navi dei veleni e le scorie seppellite nella «spianata dell'infamia».
L'anima feroce e abietta della 'ndrangheta per la prima volta racchiusa in un romanzo.
Il libro
Un giudice muore per mano di balordi. E i balordi muoiono per mano della ‘ndrangheta, che non tollera si disturbi il prosperare dei suoi affari. Almeno, cosí sembra. Alberto Lenzi, magistrato scioperato e donnaiolo, colpito dalla morte del collega e amico, si tuffa a capofitto nelle indagini. Lo instradano in una diversa direzione le sibilline, gustose parabole di don Mico Rota, capobastone della ‘ndrangheta, e il fortuito emergere di elementi legati a un traffico di rifiuti tossici.
Una «commedia umana» dove si muovono personaggi verissimi, contraddittori, sfaccettati, che inseguendo il proprio meschino tornaconto arrivano tuttavia a svelare una realtà che va molto oltre la ‘ndrangheta.
«Il limone si staccò e finí in terra a fare compagnia a tanti altri ormai infraciditi. Don Mico ne avvertí il tonfo lieve, l’andò a raccogliere, lo strofinò a lungo sotto un filo d’acqua della fontanina, estrasse il coltello da pota e prese a sezionarlo in strisce sottili che si portava alla bocca. Smorfie mentre ne masticava. Sapeva però di libertà, quel sapore acre, l’acquolina di cui gli si ammaricava la bocca».