Giulio Einaudi editore

La vista da Castle Rock

Copertina del libro La vista da Castle Rock di Alice Munro
La vista da Castle Rock
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Due filoni apparentemente distinti in questi nuovi racconti di Alice Munro: la storia familiare, ricostruita a partire dall'antenato scozzese Will O'Phaup, e la narrazione autobiografica, dall'infanzia all'attuale maturità dell'autrice.

2007
Supercoralli
pp. 312
€ 18,50
ISBN 9788806175955
Traduzione di

Il libro

Sullo sfondo, la storia collettiva: le difficili condizioni economiche della Scozia del XVIII secolo e il viaggio oltreoceano per raggiungere le terre promesse della Nova Scotia inseguendo un sogno intravisto dalla rocca del castello di Edimburgo. E poi la storia del formarsi del Canada: la conquista di nuova terra, l’edilizia, la ferrovia, le occupazioni pioniere. Su tutto la magia evocativa e creativa della scrittura di Alice Munro, che raccoglie, amalgama, reinventa, e ancora una volta conquista.

«La vista da Castle Rock è un atto di recupero più che un’appropriazione. È un memoir che ha tirato un bel respiro e si è espanso oltre i limiti del genere, e oltre i confini di una sola vita».

Hilary Mantel, «The Guardian»

Un volume di racconti – acuti, densi, rivelatori, perfetti, insomma, così come siamo abituati; eppure un volume un po’ diverso da quelli che l’hanno preceduto. Perché qui Alice Munro scava più a fondo nel dato autobiografico e confeziona un libro che ne contiene due: il primo, attingendo a documenti storici e testimonianze illustri, ripercorre la vicenda del ramo paterno della sua famiglia, i Laidlaw, a partire dal capostipite Will O’Phaup, nato alla fine del XVII secolo nelle Lowland scozzesi, e fino alla generazione immediatamente precedente a quella dell’autrice. «Storia familiare», dunque. Il secondo libro, invece, ha per protagonista la stessa Munro, che nei sei racconti che vi sono contenuti narra in prima persona vicende che vanno dall’infanzia fino all’età attuale. E dunque «memoir».
Ma i due generi, nelle mani di una maestra della narrazione senza pari, si mescolano ed esaltano in un ibrido ancor più affascinante che smussa il bordo crudo della storia e lo avvolge nella materia vibratile della creazione letteraria. L’effetto è illuminante, sui moti micro e macroscopici dell’animo, come al solito, ma anche, in questo caso, su quelli più vasti della storia collettiva, così ben riflessa in quella privata.
E quando si chiude il volume – quando si chiude ogni libro di Alice Munro, secondo la giuria della MacDowell Medal che le ha conferito il premio nel 2006 – «si sa molto ma molto di più su quel che significa essere umani».

«Ora tutti questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio che non asciugavano mai, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d’inverno dai corpi e dai fiati delle mucche. Il freddo salotto incerato dove si sistemava la bara quando moriva qualcuno. E in una di queste case – non ricordo di chi – un incantevole fermaporta, una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’orecchio, quando in giro non c’era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio stesso cuore, e del mare».